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Gioielli agli Uffizi

  • Gioielli agli Uffizi

    Un itinerario tra i misteri delle gemme dipinte

    Gioielli agli Uffizi
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    Intro

    Questo itinerario si snoda attraverso i dipinti degli Uffizi, dagli inizi del XV secolo agli inizi del XVI, alla ricerca di gioielli, non solo per guardarli più attentamente e scoprirne forme, materiali e stili ma per cercare di ricostruirne la funzione semantica all'interno dell'opera stessa.

    Per la loro natura di oggetti fatti da materiali preziosi, rari e esotici, i monili sono vocaboli complessi. Essi non rispondono soltanto all'amore istintivo dell'uomo per la materia luccicante e misteriosa, o alla necessità di abbellire e impreziosire il corpo, ma anche all'urgenza di 'rinforzarlo' secondo una concezione magica che sopravvive almeno fino alla nascita della scienza sperimentale. Una ricca letteratura lapidaria, che dall'epoca alessandrina giunge fino al Seicento, tramanda descrizioni delle caratteristiche fisiche e delle presunte virtù terapeutiche dei materiali preziosi, attraverso una serie di testi la cui diffusione è documentata in tutta l’Europa tardo medievale e rinascimentale. Fra questi vi è il trentasettesimo libro della Naturalis Historia che Plinio il Vecchio dedica interamente alle gemme (77 d.C.). Il poligrafo romano riporta, accanto alle descrizioni morfologiche una nutrita aneddotica di mirabilia attinte all’immaginario orientale. Egli riconduce il potere curativo delle gemme ad un principio di ‘simpatia e antipatia’ fra gli astri che, riverberandosi sui minerali, li caricherebbe di ogni magica virtù. L’opera di Plinio ebbe grande influenza sui lapidari medievali e un enorme successo nell’erudito Rinascimento come uno dei classici più apprezzati dagli umanisti. Nel XV secolo conservano una certa popolarità anche il De Mineralibus del mistico medievale Alberto Magno (1206-1280) e il De gemmis di Marbodo di Rennes (1035c.-1128) un’opera della fine dell’XI secolo, nata formalmente dal pretesto di attribuire il giusto significato alle gemme menzionate nella descrizione della Gerusalemme celeste (Apocalisse 21,21) e del pettorale di Aronne (Ex. 28, 15-20) nelle Sacre Scritture, ma sostanzialmente pagana nel tono e nei contenuti. Il trattato di Marbodo è un veicolo fondamentale della cultura lapidaria in epoca tardo medievale e rinascimentale per la sua enorme diffusione in area europea e le numerose traduzioni. Apprezzato dagli umanisti era anche il trecentesco poemetto L’Acerba dell’eretico Cecco d’Ascoli (morto nel 1327) nel quale le gemme, di cui l’autore riconferma le virtù terapeutiche, risultano collegate ad altrettanti pianeti.

    Topos di antichissima origine, l’associazione gemma-pianeta già presente nei testi alessandrini, nell’opera pliniana e nei lapidari tardo-medievali, prende un valore fondante nei testi rinascimentali di medicina astrologica del filosofo fiorentino Marsilio Ficino (De vita coelitus comparanda) e di Camillo Leonardi (Speculum Lapidum), medico umanista di Pesaro, ove alle pietre preziose entrambi riconoscono ancora una volta un potere determinato dalle simpatie e antipatie planetarie, e dal collegamento dei minerali con gli elementi.

    Il vocabolario dei materiali preziosi costruito sulla base dei documenti letterari assume un’importanza non trascurabile nel linguaggio dei monili. La singolare persistenza dei contenuti delle fonti lascia ipotizzare che il sapere gemmologico possa, nei secoli, essere 'sceso' dall'empireo dell'erudizione alla società reale, informando coloro che le pietre preziose le sceglievano, le montavano, le compravano e le indossavano. È proprio grazie alle fonti che i monili dipinti si caricano di una capacità di comunicare che, travalicando la consuetudine di costume, si spinge oltre la volontà del committente o dello stesso artista nella sfera dei valori e delle aspirazioni di ordine morale non altrimenti esprimibili. Questo avviene soprattutto nelle opere eseguite fra gli inizi del XV secolo e i primi anni del XVI, quando il linguaggio genericamente prezioso del gotico internazionale cede il passo alla crescente urgenza realistica degli artisti rinascimentali. In questa fase i gioielli resi tangibili nella raffigurazione pittorica e contestualizzati, oltre a testimoniare con le forme e i materiali, l'epoca, il luogo geografico e i gusti, acquistano nuove valenze semantiche oltre la banale ostentazione di ricchezza e potere.

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    Gentile da Fabriano

    Adorazione dei Magi

    I primi documenti utili per un'analisi dei gioielli dipinti si rintracciano in ambiente gotico internazionale ove l'amore per la bella materia è funzionale al tono cortese, caratteristico del periodo. Nell'Adorazione, eseguita per Palla Strozzi, Gentile esalta le corone dei Magi rendendole tridimensionali con la tecnica della pastiglia dorata e descrive dettagliatamente i vasi contenenti gli omaggi al Bambino. All’origine del dialogo intenso ed aggiornato fra la pittura dell’artista marchigiano e l’oreficeria gotica europea vi è la corte pavese di Gian Galeazzo Visconti e il cantiere del Duomo di Milano, in cui si forgia la sua cultura figurativa, negli anni ‘90 del Trecento. L'oro, eternamente uguale a se stesso e incorruttibile perché inattaccabile dagli elementi è il materiale prescelto dalla corona, l’ornamento regale per eccellenza, nato dall’esigenza di esprimere l’altezza morale del re accrescendone quella fisica. Nell’Adorazione dei Magi la presenza delle corone è giustificata dal soggetto: nel Vangelo di Matteo (2, 2-12) si parla dei Magi come di misteriosi saggi orientali capaci di leggere i segni del cielo senza alcun riferimento alla regalità, motivo questo desunto dai Salmi (72: 10, 11) che poi ebbe un forte impatto sull’iconografia dell’episodio.

    Adorazione dei Magi
    Architettura | Gli Uffizi
    Scheda opera
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    Gentile da Fabriano

    Adorazione dei Magi

    I vasi aurei recati dai Magi al Messia e contenenti oro, incenso e mirra sono tre contenitori liturgici, per l’esattezza tre pissidi, utilizzate per la conservazione dell’eucaristia ma anche dei profumi e degli unguenti. In primo piano il vaso offerto dal mago inginocchiato è già nelle mani delle inservienti che incuriosite lo hanno aperto forse per cercarne il contenuto: un espediente che, richiamando l’attenzione sull’oggetto, sembra indicare che il tributo del mago genuflesso sia proprio l’oro. Inoltre, poiché quel metallo nobile, secondo le fonti esegetiche, è un simbolico tributo a Cristo re, questa lettura troverebbe conferma nell’atteggiamento stesso del mago, la cui corona è deposta ai piedi del Bambino ad implicito riconoscimento della sua superiore regalità. Le altre due pissidi, ancora fra le mani dei Magi, hanno forma diversa: l’una cilindrica e identica alla precedente potrebbe contenere l’incenso, tributo alla divinità di Cristo, mentre la seconda, decorata con elementi gotici mutuati dall’architettura, e rialzata da un piede, potrebbe essere il contenitore della mirra, dal momento che vasi simili ricorrono fra le mani delle Maddalene mirrofore dipinte dallo stesso artista sia nel Polittico di Valle Romita della Pinacoteca di Brera che nel Polittico Quaratesi agli Uffizi. Questa sostanza usata nelle pratiche di imbalsamazione va interpretata, in accordo con l’esegesi, come un omaggio all’umanità di Gesù la cui rilevanza teologica nel dipinto risulterebbe sottolineata dalla centralità del vaso.

    Adorazione dei Magi
    Architettura | Gli Uffizi
    Scheda opera
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    Piero della Francesca

    Ritratto di Battista Sforza

    Il ritratto della duchessa in pendant con quello del duca Federico risale al periodo in cui Piero presta servizio alla corte di Urbino, negli anni ‘60 del Quattrocento. La resa lenticolare dei gioielli di Battista, prova inequivocabile della vicinanza del pittore all’arte fiamminga, permette di individuarne agevolmente forme e materiali.

    L’acconciatura è impreziosita da una gioia centrale, un rubino circondato di perle, e da una laterale con uno zaffiro à cabochon, un diamante a tavola e un altro rubino. Il collare è composto da due file di perle che includono una sequenza di castoni smaltati di zaffiri e rubini alternati; ad esso si aggiunge una catena d’oro alla quale è appeso un grande pendente gemmato. Il rubino centrale, quintessenza del fuoco nella letteratura lapidaria, è come il fuoco simbolo di amore e carità, virtù che ritornano sotto forma di allegoria fra le figure femminili attorno alla duchessa in trionfo sul verso del ritratto. L’idea che le gemme come concentrazione di luce e colore fossero simboli di virtù è di origine medievale ma informa anche la pittura rinascimentale. Sono il colore e la luce, espressione di divina luminosità, le caratteristiche che più si prestano alla lettura allegorica degli esegeti biblici: da Isidoro di Siviglia (560/570-650 c.) a Rabano Mauro (780-856) e Ugo da San Vittore (morto nel 1141).

    Con la Carità e la Fede ben riconoscibili assise sul carro, vi sono la Castità, con una veste bianca, e la Temperanza, in celeste/grigio, una sequenza diversa dalla triade delle Virtù teologali che mostra l’intenzione di sottrarre il ritratto al cliché celebrativo.

    I duchi di Urbino Federico da Montefeltro e Battista Sforza
    Architettura | Gli Uffizi
    Scheda opera
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    Piero della Francesca

    Ritratto di Battista Sforza
    (verso)

    Le gemme che impreziosiscono i gioielli della Duchessa ripetono con il loro simbolismo le Virtù raffigurate nel suo Trionfo sull’altro lato del ritratto: se le perle, infatti, con il loro puro candore corrispondo alla Castità, alla modestia alludono gli zaffiri (non a caso del colore del manto della Vergine) emblemi degli uomini saggi che pur rivolgendosi al cielo per trarne ispirazione rimangono con i piedi per terra (S. Ambrogio). Il piccolo diamante tra i capelli, gemma che riluce nelle tenebre e resiste al ferro e al fuoco, rimanda verosimilmente alla fede, in accordo con l’esegeta Ugo da San Vittore. Nella scena con il Trionfo della Duchessa colpisce l’assenza della Speranza fra le virtù e di conseguenza lo smeraldo, sua gemma – simbolo, fra le gemme dei suoi monili. Federico sul carro trionfale è invece attorniato dalla serie canonica delle virtù cardinali: Giustizia, Prudenza, Fortezza e Temperanza. Il dato potrebbe indicare come la Speranza sia morta con la protagonista nel 1472 nel soddisfare la speranza del duca di avere un erede. Quest’indicazione conferma la teoria ormai accettata che il ritratto sia stato eseguito dopo la morte di Battista Sforza.

    I duchi di Urbino Federico da Montefeltro e Battista Sforza
    Architettura | Gli Uffizi
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    Filippo Lippi

    Madonna con Bambino

    La tavola, destinata alla devozione domestica, raffigura una Madonna dal volto bellissimo e delicato, sottolineato dall’elaborata acconciatura di veli impreziosita da candide perle descritte alla fiamminga. Le stesse gemme ricompaiono sulla veste e sul cuscino di broccato, come unica forma di ornamento. Il dato risulta coerente con l’iconografia della Vergine.

    Madonna col Bambino e due angeli
    Architettura | Gli Uffizi
    Scheda opera
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    Filippo Lippi

    Madonna con Bambino

    Simboli di naturale perfezione le gemme marine rappresentano intuitivamente la bellezza naturale per la loro sfericità nonché la castità per il loro candore, che nel caso della Madonna, assume un valore fondamentale nella dottrina cristiana. Un racconto indiano, riportato da Plinio il Vecchio (IX, 107), narrava come in un certo periodo dell’anno l’ostrica dal fondo del mare affiorasse in superficie e, aprendo le valve, raccogliesse la rugiada celeste. La gestazione della perla sarebbe stata conseguenza di questa fecondazione nella quale l’esegesi medievale ha ravvisato stringenti analogie con la gravidanza della Vergine e la nascita di Cristo. Ugo da San Vittore nel De bestiis et aliis rebus interpreta la rugiada celeste come lo Spirito Santo che Maria-conchiglia accoglie nel grembo per concepire Gesù Cristo-perla.

    Madonna col Bambino e due angeli
    Architettura | Gli Uffizi
    Scheda opera
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    Piero del Pollaiolo

    Carità

    La Carità è considerata il punto di partenza della serie commissionata dal tribunale della Mercanzia, nel 1470, alla bottega dei Pollaiolo, un atelier polivalente di pittura, scultura e oreficeria. Riconosciuta come opera di Piero questa Virtù - una regina in trono raffigurata come una Madonna del latte - è vestita di rosso con un mantello di broccato chiuso da un grosso rubino circondato da quattro perle disposte a croce, due piccoli rubini e due diamanti.

    Carità
    Architettura | Gli Uffizi
    Scheda opera
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    Piero del Pollaiolo

    Carità

    La figura regale indossa una corona con diamanti, perle e gemme vermiglie da cui si levano vere fiamme. L'analogia fra il rubino e il fuoco, suggerita dalla corona, rappresenta uno dei topoi della letteratura lapidaria. Dell’elemento corrispondente, la pietra avrebbe non solo il colore, ma anche i comportamenti fisici e il calore. Plinio il vecchio (XXXVII, 92-94) nota infatti come il rubino sia incombustibile ma, una volta inciso e utilizzato come sigillo, abbia la capacità di imprimere la cera grazie ad una magica autonomia termica. Il fatto che i rubini più splendenti si trovino ove il sole è più intenso rinsalda il rapporto fra il fuoco e la gemma nella quale il calore sarebbe infuso dal sole d’Oriente. L'associazione fra rubino e Carità compare invece nell’esegesi biblica ove rappresenta la virtù del martirio, un collegamento che sarà ripetuto anche da Camillo Leonardi nel suo Speculum lapidum del 1502.

    Carità
    Architettura | Gli Uffizi
    Scheda opera
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    Piero del Pollaiolo

    Carità

    Nella bottega dei fratelli Antonio e Piero del Pollaiolo, pittori ed esperti orafi, esecutori di eccellenti pezzi d'oreficeria sacra, la conoscenza del simbolismo delle pietre preziose e in special modo del loro significato mistico doveva essere necessaria sia all’eloquenza pittorica che a quella artigiana. Nel dipinto si crea fra la virtù e la pietra preziosa una vera e propria identità che spiega la frequente presenza di pendenti con rubino nei ritratti femminili rinascimentali.

    Carità
    Architettura | Gli Uffizi
    Scheda opera
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    Piero del Pollaiolo

    San Giacomo Apostolo fra i Santi Vincenzo e Eustachio

    L’opera dipinta per la Cappella del cardinale del Portogallo e attribuita a Piero del Pollaiolo raffigura i Santi Vincenzo, Giacomo ed Eustachio, tutti e tre collegati alla figura di Jacopo di Lusitania, cardinale arcivescovo di Lisbona morto a Firenze nel 1459 e seppellito nella chiesa di San Miniato al Monte. La scelta dei Santi è puntuale: san Vincenzo è il patrono di Lisbona, la città del cardinale, san Giacomo, omonimo del prelato, è il titolare della cattedrale di Santiago de Compostela mentre Eustachio rimanda alla chiesa romana in cui egli era stato ordinato cardinale.

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    Piero del Pollaiolo

    San Giacomo Apostolo fra i Santi Vincenzo e Eustachio
    (San Vincenzo)

    Il primo protomartire, Vincenzo, a ricordo dell'incarico apostolico di arcidiacono, indossa una dalmatica di pesante tessuto rosso, il colore del martirio, con bordi e motivi a ricamo scintillanti di rubini, diamanti/zaffirie perle descritte con precisione fiamminga.

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    Piero del Pollaiolo

    San Giacomo Apostolo fra i Santi Vincenzo e Eustachio
    (Sant'Eustachio)

    Le stesse gemme ritornano nell'abbigliamento ‘moderno’ di Eustachio, soldato romano convertito: le prime due sul collare, indossato a mo’ di onorificenza cavalleresca a indicare nel Santo un cavaliere decorato dal suo stesso martirio (i rubini) e dalla forza (i diamanti, tradizionali simboli di resistenza) mostrata nell'affrontare la prova con onore.

    Le perle decorano la manica del braccio che reca la palma in corrispondenza della spalla ma anche la cintura, rendendo ancora più esplicito il simbolismo di castità e continenza collegato sia alla perla che alla cintura stessa.

  • 14/68
    Piero del Pollaiolo

    San Giacomo Apostolo fra i Santi Vincenzo e Eustachio
    (San Giacomo Apostolo)

    Il terzo santo, Giacomo, ha un'unica gemma: una perla al centro dello scollo della veste, un probabile rimando a Cristo, definito “bella perla” nella parabola evangelica di Matteo (13, 45). Sul cappello ai suoi piedi campeggia il pecten jacobaeus, la conchiglia attributo del Santo, emblema della sua Cattedrale.

  • 15/68
    Piero del Pollaiolo

    Ritratto femminile

    L'ignota gentildonna ritratta di profilo è simile, per tipologia, ad altri tre dipinti dello stesso pittore eseguiti fra il 1470 e l’80, verosimilmente en pendant con altrettanti ritratti maschili. In questo genere pittorico spesso dettato dall’occasione matrimoniale, ai gioielli, doni del marito o parte della dote, era affidato il compito di raccontare le virtù materiali e spirituali della sposa. L'acconciatura a vespaio, abbellita da una gioia da testa con rubino, conferisce alla dama un portamento eretto, il vezzo di perle la decora di castità mentre il pendente, con perle e rubini, ribadisce i concetti di purezza (le perle) e di generosità (il rubino), virtù considerata necessaria alla procreazione.

  • 16/68
    Piero del Pollaiolo

    Ritratto femminile

    Il gioiello più interessante è il fermaglio al centro del petto, il luogo dove batte il cuore, l’organo dei sentimenti e della vita stessa. Si tratta di un angelo eseguito con la tecnica della fusione a cera persa e smaltato, nel corpo del quale è incastonato un rubino circondato da un’altra pietra rossa di ridotte dimensioni, da uno zaffiro, uno smeraldo e alcune perle, una tipo di monile di moda, in quell’epoca, a Milano.Analogamente alla croce e altri simboli cristiani l'angelo, il custode per eccellenza, ha in questo caso una funzione dichiaratamente protettiva e con esso le gemme che lo impreziosiscono. Secondo la medicina astrologica di Marsilio Ficino e Camillo Leonardi il rubino, dalle caratteristiche solari, capace di confortare il cuore e infondere vitalità, era la gemma della salute, mentre lo zaffiro, portatore delle virtù di Giove, recava prosperità e lo smeraldo, pietra di Venere, bellezza e fertilità. Circondate dalle ali dell'angelo, verosimilmente Gabriele l'annunziante, le tre pietre con i loro valori di salute, ricchezza e fertilità risultano visivamente protette dall’angelo stesso, trasformando così il monile in un potente talismano per la futura vita matrimoniale e per la continuazione della stirpe.

  • 17/68
    Piero del Pollaiolo

    Ritratto di Galeazzo Maria Sforza

    Dipinto nel 1471 in occasione del soggiorno fiorentino del duca di Milano, e commissionato da Lorenzo de’ Medici per suggellare l’occasione diplomatica, il ritratto rivela un’influenza fiamminga nel taglio della figura a tre quarti, innovativo per l’epoca, ma non nella sommaria descrizione del gioiello, pur molto visibile al centro del petto del duca.

  • 18/68
    Piero del Pollaiolo

    Ritratto di Galeazzo Maria Sforza

    Il pendente, a forma di scudo, reca una gemma rossa, rara nei ritratti maschili, un rubino o forse un granato, al tempo entrambi ascritti alla stessa categoria pliniana delle “gemme ardenti”. I lapidari astrologici del tardo-Medioevo e del Rinascimento sono concordi nel dire che il rubino è ricco di poteri, che gli derivano dal suo rapporto col pianeta Marte e con la stella Sole. Per il collegamento con quest’ultimo, ad esso si riconosceva la proprietà di rafforzare l’energia vitale, di rendere il corpo incolume, di conferire allegria, prontezza e alacrità a chi lo portasse. Sulla scia di queste indicazioni il talismano solare nel dipinto, sembra voler dire: ‘lunga vita a Galeazzo! Che il rubino lo preservi vitale e coraggioso alleato di Firenze’.

    La gemma potrebbe tuttavia fornire anche un’indicazione più specifica poiché sappiamo dai documenti che, nello stesso anno del ritratto, Galeazzo aveva comprato un grosso balasso (varietà di spinello) modellato a cuore. Sebbene la gemma pare fosse destinata ad una dama, Pollaiolo potrebbe averla presa temporaneamente in prestito per arricchire l’effigie del condottiero con un puntuale riferimento storico. È tuttavia ancor più probabile che si tratti del “balasso grande” indossato da Galeazzo in occasione del suo ingresso a Firenze nel 1471 e scrupolosamente annotato dal diplomatico mantovano Zaccaria Saggi nel suo resoconto dell’evento per Ludovico Gonzaga.

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    Sandro Botticelli

    Fortezza

    Nell'ambito della serie pollaiolesca delle Virtù, l’associazione gemma-virtù torna nella Fortezza, eseguita da Botticelli grazie forse all’intercessione di Tommaso Soderini presso il Tribunale della Mercanzia. Dipinta intorno al 1470, l’opera è il primo cardine della cronologia botticelliana ma mostra il linguaggio già maturo dell'artista sia nel trattare la bellezza e la grazia femminili che nella libertà con cui egli interpreta l'iconografia della figura allegorica.

    Dei tradizionali attributi della Forza, il pittore conserva la colonna con capitello corinzio, la mazza ferrata e la corazza metallica, coerenti con il carattere guerriero, ma aggiunge un tocco fantasioso: due diamanti in corrispondenza dei seni. Non sappiamo se a quel tempo Botticelli lavorasse regolarmente nella bottega dei fratelli Pollaiolo, esperti orafi oltre che pittori, ma è probabile che Sandro come molti altri artisti avesse cominciato la sua educazione presso una bottega orafa e conoscesse già bene le gemme per esperienza diretta.

    Fortezza
    Architettura | Gli Uffizi
    Scheda opera
  • 20/68
    Sandro Botticelli

    Fortezza

    I diamanti, definiti da Plinio ‘indomabili’ (XXXVII, 55-60), erano noti ai lapicidi per la loro resistenza al taglio; a quell'epoca infatti non era ancora nota la tecnica della sfaccettatura che trasforma la pietra naturale in brillante, e solo due erano le forme possibili: a punta e a tavola. La durissima punta di diamante, poi, era insostituibile nel taglio delle altre gemme e come tale era un naturale emblema di forza. Inserite nella corazza della Fortezza, le pietre appuntite la presentano come la virtù che taglia ma che non si lascia tagliare. Alle perle dell'acconciatura e dello scollo, caratterizzate da sfericità e candore, spetta il compito di rimandare alla purezza perfetta della Virtù.

    Fortezza
    Architettura | Gli Uffizi
    Scheda opera
  • 21/68
    Sandro Botticelli

    Ritratto di uomo con la medaglia

    In questo ritratto la presenza della medaglia non è riuscita a sciogliere l'enigma dell'identità del personaggio che, per i lineamenti simili a quelli dello stesso pittore, è stato ipoteticamente  individuato come suo fratello, l’orafo Antonio Filipepi, possibile autore della medaglia che così orgogliosamente esibisce.

    Una sorta di identikit morale è tracciato dai due anelli del protagonista: uno recante un rubino à cabochon e l’altro, meno visibile, uno smeraldo di analogo taglio. Portati al dito mignolo i due anelli non sembrano indicare legami sentimentali, in genere delegati all’anulare, ma non per questo sono muti! L'anello è il monile che più riflette l’identità di chi lo porta, un valore che deriva dall'uso greco e romano dell'anello-sigillo dove un’iscrizione o un emblema figurato, incisi sul metallo o sulla gemma, servivano a siglare la cera che chiudeva i documenti ufficiali. Come espressione di identità, l’anello è eloquente e parla di chi lo indossa tramite il simbolismo delle gemme, in questo caso un rubino e uno smeraldo.

  • 22/68
    Sandro Botticelli

    Ritratto di uomo con la medaglia

    Il primo, gemma solare e quintessenza del fuoco (cfr. la Carità di Piero del Pollaiolo), segnala la generosità del personaggio, mentre lo smeraldo dal colore d’acqua, rimanda al valore della bellezza. Già Plinio aveva sottolineato che gli smeraldi più belli provenivano da Cipro, l'isola di Venere, indicando per primo il collegamento fra la dea della bellezza e la gemma (XXXVII, 65-66) un’associazione che sarà riconfermata in seguito nel De vita coelitus comparanda di Marsilio Ficino. Certamente Botticelli conosceva il passo de L’Acerba, diffusa a Firenze già dal Trecento, nel quale Cecco d’Ascoli afferma che lo smeraldo: “conserva il viso che virtù non perda”.

    Plinio il Vecchio (XXXII, 26) segnala come sia un po’ snob portare pietre costose e pregiate al dito più piccolo, un’ostentazione di una poco credibile incuria per la loro preziosità. E non solo: dacché spesso quella era la sede del sigillare, la presenza di un anello da mignolo lasciava intendere che il proprietario tenesse sotto chiave molto più di quel pur prezioso piccolo monile.

    Sembra proprio che il personaggio ritratto stia dicendo: “sono buono (il rubino) e sono bello (lo smeraldo) ma non do tanto peso a queste mie virtù perché ciò che conta è che sono soprattutto bravo” come dimostra l’aperta ostensione della medaglia con l’effigie di Cosimo “pater patriae”.

    Anche se l'identità dell'uomo raffigurato rimane incerta - così come la sua professione - è tuttavia evidente il suo essere dalla parte dei Medici al pari di quella dell’artista, per il principio che “ogni pittore dipinge se stesso”.

  • 23/68
    Sandro Botticelli

    Pallade e il centauro

    Ritorna qui lo stesso particolare dei diamanti dipinto dall’artista nella corazza della Fortezza, ma in questo caso le gemme appuntite, incastonate nell’oro, risultano direttamente applicate al leggero tessuto della veste della Pallade in un modo tecnicamente impraticabile. Questo fantasioso dettaglio di costume, tuttavia, conferma l'intenzionalità della scelta decorativa e il suo valore iconografico. Pallade, grazie ai diamanti, è resa ancor più invincibile: impugna un'alabarda (arma da difesa) a sua volta impreziosita da un diamante tagliato a tavola. La stessa gemma appuntita ritorna nel motivo araldico mediceo dei tre o quattro anelli di diamanti intrecciati sulla fluida veste 'all'antica'.

    Pallade e il centauro
    Architettura | Gli Uffizi
    Scheda opera
  • 24/68
    Sandro Botticelli

    Pallade e il centauro

    L’emblema e i diamanti incastonati sui seni e nella gioia da testa, ci dicono che i Medici non sono solo i committenti di quell’opera ma anche ‘i proprietari’ di quella Pallade, incarnazione di forza adamantina e di resistenza agli attacchi del nemico, tutte virtù proprie della gemma, ritenuta capace di resistere al ferro e al fuoco nonché ai tentativi dei lapicidi di domarla. Che il nemico (il centauro) sia politico o morale, il significato non cambia. In questo ultimo caso la forza della dea, per il pittore mediceo, starebbe soprattutto nell'opporre all'ambigua e ferina natura del centauro la sua sapientia, scintillante e inossidabile come un diamante.

    Pallade e il centauro
    Architettura | Gli Uffizi
    Scheda opera
  • 25/68
    Sandro Botticelli

    La Primavera

    Quando si guarda la Primavera in genere non si guardano i gioielli ma l'atmosfera sognante creata dalle figure mitologiche. Eppure i gioielli della Primavera aggiungono ulteriore bellezza e coerenza a quest'opera perfetta. Anche nei dettagli preziosi l'opera rappresenta la prova tangibile sia dell'interesse dei Medici per l'Antichità e per le sue divinità, sia del singolare rapporto fra Botticelli e i monili.

    Nel dipinto i preziosi non sono molti, ne indossano solo Venere e le Grazie, sue ancelle. La dea ha un diadema e un pendente molto pertinenti: il primo, appena leggibile, è ornato di perle, la gemma della naturale pura bellezza mentre il secondo, collocato non già come di consueto sopra il seno, ma vicino al ventre turgido, richiama l'attenzione sulla parte del corpo deputata alla gestazione.

    La Primavera
    Architettura | Gli Uffizi
    Scheda opera
  • 26/68
    Sandro Botticelli

    La Primavera
    (Pendente di Venere)

    La forma, apparentemente confusa dalla presenza della gemma rossa, è un crescente lunare che ricalca la lunula, un amuleto caratteristico delle donne romane. Il riferimento alla fertilità è reso chiaro sia dal soggetto del gioiello (secondo l’astrologia di Marsilio Ficino la Luna è deputata alla crescita del feto), che dalla sua posizione. Il solo luogo dove Botticelli poteva aver visto questo monile così estraneo alla moda quattrocentesca era Roma, dalla quale egli era da poco reduce e dove aveva tratto ispirazione per il gruppo delle Grazie.

    La Primavera
    Architettura | Gli Uffizi
    Scheda opera
  • 27/68
    Sandro Botticelli

    La Primavera
    (Pendenti delle Grazie)

    Analizzando i pendenti di due delle tre fanciulle si nota come uno di essi sia un classico pendente fiorentino (quello con la gemma rossa) mentre il secondo, a motivi fitomorfi impreziositi da perle e forse zaffiri , sia piuttosto un fermaglio, che in virtù delle leggibili foglie di quercia appare come un possibile richiamo araldico al papa Della Rovere. Grazie al papa per il quale aveva eseguito una parte degli affreschi della cappella Sistina, Botticelli aveva potuto ampliare enormemente la sua conoscenza dell’Antichità arricchendo così la sua eloquenza pittorica di inedita erudizione archeologica; questo eloquente gioiello potrebbe dunque valere come espressione di riconoscenza per il committente romano. Tuttavia va considerato che fra i significati attribuiti alle Grazie dagli umanisti vi era quello di emblemi della Concordia, dunque il monile potrebbe aver avuto la funzione ancor più determinante di esprimere la raggiunta pace fra Roma e Firenze. Confrontando i due monili si nota infatti che il primo è un pendente ampiamente documentato dalla ritrattistica fiorentina, mentre il secondo, come richiamo araldico al papa, potrebbe ben rappresentare Roma. Così Botticelli avrebbe celebrato, con un particolare discreto, la raggiunta concordia fra Firenze e Roma, alla quale aveva direttamente contribuito nella sua qualità di artista mediceo.

    La Primavera
    Architettura | Gli Uffizi
    Scheda opera
  • 28/68
    Hugo van der Goes

    Trittico Portinari

    È un vero tripudio di gioielli bellissimi il monumentale Trittico commissionato da Tommaso Portinari per la Chiesa fiorentina di Sant’Egidio nel 1478. Le dimensioni mostrano con chiarezza le grandi ambizioni del committente e lo stesso fanno i monili, segnali di censo e virtù registrati con perizia dal pittore fiammingo.

    Adorazione dei pastori con angeli e i santi Tommaso, Antonio abate, Margherita, Maria Maddalena e la famiglia Portinari (recto); Annunciazione (verso)
    Architettura | Gli Uffizi
    Scheda opera
  • 29/68
    Hugo van der Goes

    Trittico Portinari
    (Maria Maddalena Portinari)

    Nonostante l’opera rappresenti l’Adorazione dei pastori che, a differenza della più tradizionale Adorazione dei Magi, non necessitava di attributi iconografici preziosi, le gentildonne Portinari - Maria Maddalena, moglie del committente e la figlia Margherita - appaiono ornate così come gli angeli. La prima reca all’anulare un anello matrimoniale composto da un rubino e uno zaffiro à cabochon affiancati e indossa un opulento collare di smalti, rubini, zaffiri, perle e grani di onice , di fattura verosimilmente borgognona, simbolo di castità (le perle), di forza (il diamante) e di generosità (il rubino). Si tratta di un oggetto storico giacchè esso compare identico anche nel ritratto della dama eseguito da Hans Memling (al Metropolitan Museum di New York), forse un dono di nozze nel quale è stato ipoteticamente individuato il monile che il marito fu in seguito costretto a rivendere per ripianare i debiti del fallimento del Banco mediceo da lui diretto a Bruges.

    Adorazione dei pastori con angeli e i santi Tommaso, Antonio abate, Margherita, Maria Maddalena e la famiglia Portinari (recto); Annunciazione (verso)
    Architettura | Gli Uffizi
    Scheda opera
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    Hugo van der Goes

    Trittico Portinari
    (Margherita Portinari)

    La piccola Margherita indossa un elaborato vezzo di perle con un pendente a tre gemme: due à cabochon (un rubino e uno zaffiro) e un diamante dall’inconfondibile taglio a punta, un talismano di bontà, umiltà e forza. Ancora più eloquente è una spilla da cappello con una sequenza di ovali (smaltati?), e tre perle sferiche: le margaritae nel linguaggio dei lapidari, chiari rimandi al nome della giovinetta.

    Adorazione dei pastori con angeli e i santi Tommaso, Antonio abate, Margherita, Maria Maddalena e la famiglia Portinari (recto); Annunciazione (verso)
    Architettura | Gli Uffizi
    Scheda opera
  • 31/68
    Hugo van der Goes

    Trittico Portinari
    (Angeli del gruppo di destra)

    Nei due ritratti i gioielli sono vanitas e rimandano alla natura terrena delle protagoniste, tuttavia anche gli angeli indossano interessanti ornamenti da testa a segnalare l’ambivalenza del linguaggio dei monili, qui espressione metafisica di gloria divina. Divisi in due gruppi, i messaggeri celesti di destra sono abbigliati in sontuosi abiti liturgici e ornati di corone che ne qualificano l’appartenenza alle più alte sfere delle gerarchie angeliche.

    Adorazione dei pastori con angeli e i santi Tommaso, Antonio abate, Margherita, Maria Maddalena e la famiglia Portinari (recto); Annunciazione (verso)
    Architettura | Gli Uffizi
    Scheda opera
  • 32/68
    Hugo van der Goes

    Trittico Portinari
    (Angeli del gruppo di sinistra)

    Gli angeli di sinistra, dalla candida tunica dell’Arcangelo annunciante, recano un pennino al centro del diadema, un prezioso divenuto alla moda oltre un secolo dopo. Uno dei due appare formato da un rametto di corallo cui sono attaccate delle sferiche perle: il corallo fa dell’oggetto una sorta di amuleto contro il maligno poiché al rosso materiale marino, spesso dalla natura foggiato a croce, era riconosciuto il potere di scacciare il demonio. Tale facoltà, annotata da Marbodo di Rennes, dovette godere di enorme popolarità grazie alla grande diffusione europea del trattato e alle sue numerose traduzioni.

    Con questa bizzarra antenna l’angelo più vicino allo spettatore non solo ricorda il suo ruolo di annunciatore, con la posizione, il giglio nel vaso raffigurato accanto e le perle del suo bandeaux ma sembra assumere anche il ruolo di guardiano della famiglia Portinari, la cui posizione sociale ed economica stava, in quegli anni, vacillando pericolosamente.

    Adorazione dei pastori con angeli e i santi Tommaso, Antonio abate, Margherita, Maria Maddalena e la famiglia Portinari (recto); Annunciazione (verso)
    Architettura | Gli Uffizi
    Scheda opera
  • 33/68
    Domenico Ghirlandaio

    Madonna in trono con il Bambino e i Santi Michele, Giusto, Zanobi e Raffaele

    La Sacra Conversazione per la chiesa di San Giusto alle mura a Firenze vede riuniti intorno alla Vergine con il Bambino gli arcangeli Michele e Gabriele, i santi vescovi Giusto e Zanobi e un coro di angeli. L’oro è molto presente sebbene non ottenuto con la tradizionale tecnica della foglia d’oro ma con un metodo innovativo, attraverso velature sovrapposte di colori semplici, come racconta Giorgio Vasari.

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    Domenico Ghirlandaio

    Madonna in trono con il Bambino e i Santi Michele, Giusto, Zanobi e Raffaele

    Un fregio aureo, molto originale, borda il parapetto in muratura che separa la terrazza dei Santi dal giardino retrostante: lo impreziosiscono zaffiri, rubini, smeraldi e perle segnali della modestia, della bontà, della bellezza e della purezza della Madonna che con questo espediente risultano estese a tutti i personaggi della Sacra Conversazione. Il manto della Vergine è tenuto chiuso sul petto da un fermaglio ovale con uno zaffiro circondato di perle, un segno chiaro della sua naturale umiltà e dogmatica verginità. Il Bambino tiene in mano una sfera di cristallo sormontata da una croce in oro e perle, un rimando alla regalità spirituale dacché l’oggetto, come lo scettro e la corona, è un regalia sin dall’epoca degli imperatori romani e bizantini, presso i quali si arricchisce della croce gemmata. La sfera infatti non rappresentava la terra, che al tempo era ritenuta piatta, ma il cosmoe come tale doveva trasmettere il concetto di universalità, in questo caso spirituale.

    Il materiale stesso, il cristallo di rocca, ritenuto capace di cauterizzare le ferite per le sue proprietà riflettenti, si riferirebbe al potere taumaturgico del Redentore. L’indicazione sull’uso del cristallo, inizialmente fornita da Plinio (XXXVII, 28), è ripetuta da Marbodo e nel XVI secolo da Camillo Leonardi e da Ludovico Dolce. Per l’esegeta medievale Rabano Mauro il cristallo, sorta di ghiaccio fossile, è collegato al sacramento del Battesimo e all’Incarnazione di Cristo.

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    Domenico Ghirlandaio

    Madonna in trono con il Bambino e i Santi Michele, Giusto, Zanobi e Raffaele
    (San Michele)

    Il globo è attributo di San Michele, anch’egli presente nella pala, un dettaglio che suggerisce un rapporto privilegiato fra il Bambino divino e l’Arcangelo armato. Pietre preziose incastonate nell’armatura metallica, sullo scollo e sui fianchi a mo’ di cintola, conferiscono al Santo un carattere di guerriero sovrannaturale, di giustiziere divino, mentre la perla in corrispondenza del basso ventre ne ribadisce l’angelica castità, nonché l’assenza di connotazione sessuale.

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    Domenico Ghirlandaio

    Madonna in trono con il Bambino e i Santi Michele, Giusto, Zanobi e Raffaele
    (San Zanobi)

    Gli zaffiri sulla mitria dei Santi vescovi rimandano alle parole di sant’Ambrogio che definisce la gemma emblema degli uomini santi capaci di contemplazioni celesti nell’esistenza terrena, mentre i rubini sui guanti degli stessi, simulando le stigmate, ricordano la Passione del Redentore. Assai interessanti sono i fermagli da piviale: quello di Zanobi con un giglio rosso è simbolo di Firenze mentre quello di San Giusto da Volterra ha una strategica funzione esegetica.

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    Domenico Ghirlandaio

    Madonna in trono con il Bambino e i Santi Michele, Giusto, Zanobi e Raffaele
    (San Giusto da Volterra)

    Collocato proprio al centro della gola e sottolineato dal gesto della mano, il fermaglio richiama l’attenzione sull’eloquenza del Santo, evangelizzatore della sua città assediata dai Goti.

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    Andrea Mantegna

    Adorazione dei Magi

    L’Adorazione costituisce la parte centrale del trittico, proveniente dal Castello di San Giorgio dei Gonzaga, databile agli anni ‘60 del Quattrocento. Il dipinto di non grandi dimensioni, mostra come Mantegna, abbandonato il topos della regalità dei Magi, escludendo le corone dalla sua narrazione, abbia, per contro, descritto con grande accuratezza i vasi degli omaggi, sbalzati e cesellati in oro e impreziositi di gemme.

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    Andrea Mantegna

    Adorazione dei Magi

    Nella fattispecie i coperchi ne recano tre leggibili specie differenti: un rubino, uno zaffiro ed una perla. Le tre diverse pietre esotiche esaltano naturalmente la provenienza dall’Oriente dei protagonisti: i tre saggi (forse astrologi persiani seguaci di Zoroastro) che individuata la stella cometa e riconosciuta come presagio di un evento eccezionale, l'avevano seguita fino ad incontrare il Messia (Mt. 2, 2-12). Non stupisce che il linguaggio rinascimentale di Mantegna descriva con chiarezza le gemme, ma resta da spiegare perché esse siano diverse tra loro: probabilmente per desiderio di varietà e per compiacere il committente, il marchese Ludovico Gonzaga che a quello sfarzo era abituato, ma forse anche per segnalare il differente contenuto dei preziosi vasi.

    Infatti i tre doni, oro, incenso e mirra, tributi simbolici rispettivamente alla regalità, alla divinità e all'umanità di Cristo possono essere collegati alle gemme seguendo le indicazioni dell’esegesi biblica. Così la perla, da Plinio chiamata anche unio, gemma unica - poiché ogni ostrica non può contenerne più di una (IX, 123)- e quindi degna di un monarca, è il coronamento del vaso contenente l’oro di Melchiorre e rappresenterebbe la regalità di Cristo, cui la perla rimanda anche per la sua casta genesi (cfr Madonna di Filippo Lippi). Baldassarre, il portatore di incenso reca invece il vaso coronato da un grande zaffiro, una delle gemme che ornano i basamenti della Gerusalemme celeste, la città divina, luogo di Santità e virtù (AP. 21, 9). Per gli esegeti, da Sant’Ambrogio a Ugo da San Vittore, lo zaffiro rappresenta il cielo e pertanto la dimensione celeste. La gemma sarebbe pertanto collegabile con l'incenso per l'andamento ascensionale del suo fumo profumato che, durante le pratiche liturgiche, veicolava le preghiere verso l'alto, il luogo del divino per eccellenza. Infine Gaspare il mago nero che a Cristo donò la mirra, ha il vaso ornato da un grosso rubino. Questa sostanza, impiegata nelle pratiche di imbalsamazione, allude alla morte, e sottolinea implicitamente la natura umana di Cristo, divino e mortale allo stesso tempo. Per l’esegeta Bruno d’Asti (morto nel 1125) il rubino, simbolo di carità come il fuoco di cui è la quintessenza, rappresenta il martirio. Mantegna erudito e appassionato di Antichità, poteva conoscere il simbolismo delle gemme almeno per due diverse vie: le Sacre Scritture, bagaglio necessario all'eloquenza di un pittore di soggetti religiosi e la Naturalis Historia di Plinio il Vecchio. A quel tempo l'opera del poligrafo romano era presente nella biblioteca dei Gonzaga nella preziosa forma di un manoscritto chiosato da Petrarca. Nel libro della Naturalis Historia dedicato alle gemme i magi sono citati dall'autore come depositari delle conoscenze medico-magiche sulle pietre preziose. Fra i re magi della storia sacra e quelli pliniani, misteriosa casta medio-orientale di sacerdoti-astrologi, non vi è alcuna reale corrispondenza se non le cognizioni astrologiche comuni a entrambi, ma è possibile che Mantegna si sia valso dell’ambiguità del termine magi, comune alle due fonti, per inserire le tre gemme ed arricchire così la propria eloquenza pittorica di un riferimento erudito di sicuro effetto sul committente.

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    Andrea Mantegna

    Madonna delle Cave

    Mantegna non manca di registrare con cura fiamminga il fermaglio da mantello che orna la Madonna di questo piccolo dipinto. Il monile è impreziosito da un rubino centrale tagliato à cabochon.

  • 41/68
    Andrea Mantegna

    Madonna delle Cave

    La gemma, collegata all’elemento fuoco di cui sarebbe un estratto (Plinio XXXVII, 92), rappresenta l’amore ardente di Maria capace di donare il proprio figlio per la redenzione dell’Umanità. Nel De Universo, tuttavia, l’esegeta Rabano Mauro afferma che il carbunculus, dotato della proprietà di brillare di luce propria, sarebbe l’allegoria del Verbo incarnato capace di illuminare l’umanità nelle tenebre. Le tre piccole perle disposte a triangolo intorno alla gemma centrale, evocando la verginità di Maria richiamano con il numero la Trinità e grazie al loro caratteristico aspetto sferico, candido e prezioso la purezza perfetta di Cristo, per l’analogia fra il virginale concepimento di Maria e dell’ostrica e quella conseguente del prodotto di entrambe (cfr Madonna con Bambino e angeli di Filippo Lippi). Così l’eloquente fermaglio unisce in sé sia il simbolismo mariano di verginità e amore, sia  riferimenti sottili, ma chiari, alla Trinità e alla missione di Cristo come verbo incarnato.

  • 42/68
    Alessandro Araldi

    Ritratto di Barbara Pallavicino

    È oltremodo ricca la parure di Barbara, figlia di Rolando II Pallavicino, e denota il prestigio della sua antica casata. A confermare l’autorevolezza e la distanza sociale della sua nobile schiatta, la fanciulla è ritratta di profilo come un antico cammeo o come i ritratti sulle monete imperiali.

    La gioia da testa, appesa di lato alla lenza o ferronière, è una scelta di costume che rende visibile l’opulento pendente, dalla caratteristica forma in voga già dalla fine del Quattrocento e recante al centro un grosso smeraldo, in alto un rubino e in basso una perla a goccia.

    Il monile ha una funzione identitaria grazie alla collocazione strategica sul capo. Su tutte le sue gemme si impongono lo smeraldo e la perla, segnali di bellezza e castità, ma anche di fertilità per il collegamento della prima al pianeta Venere e della seconda alla Luna, entrambi responsabili della gestazione secondo la medicina astrologica di Marsilio Ficino. Tale lettura sarebbe coerente con la funzione matrimoniale del ritratto, destinato forse a presentare Barbara al futuro sposo, il condottiero modenese Ludovico Rangoni.

  • 43/68
    Alessandro Araldi

    Ritratto di Barbara Pallavicino

    La triade smeraldo, rubino e perla si ripete nel pendente appeso ad un vezzo di perle sferiche molto grandi, inequivocabile segnale di purezza, ma il più inconsueto dei monili della fanciulla è una lunga collana di grani neri verosimilmente di giaietto, un gioiello magico raffigurato anche nella Dama con l’ermellino di Leonardo da Vinci. Il giaietto è un materiale organico, una varietà di lignite conosciuta fin dall’Antichità, ne parlano infatti diffusamente le fonti ellenistiche suggerendone l’impiego per regolarizzare il ciclo mensile e donare felici gravidanze alle donne sterili. Nel De mineralibus Alberto Magno lo consiglia soprattutto per rivelare la verginità: infatti qualora si somministri dell’acqua nella quale sia stato lavato un frammento di giaietto ad una donna impura essa sentirà l’immediato stimolo a orinare, come segnale chiaro della virtù perduta. Per lo stesso autore il nero materiale metterebbe in fuga la paura del parto. Tali proprietà giustificherebbero la presenza di un monile così poco ornamentale fra gli altri gioielli dichiaratamente preziosi, ribadendo il compito svolto dalle pietre preziose di presentare Barbara in tutta la sua integra virtù.

  • 44/68
    Boccaccio Boccaccino

    Zingarella

    È forse a causa di quel ‘foulard’ avvolto intorno alla testa come un chador che la fanciulla ritratta dal pittore cremonese Boccaccio Boccaccino si è guadagnata il titolo di zingarella. In realtà, fatta eccezione per l’esotico copricapo che strizza l’occhio alle estrose e variopinte eleganze della Venezia di Giovanni Bellini, non vi è nulla nella religiosa concentrazione della giovinetta che rimandi alla prontezza e alla furbizia di una gitana.

  • 45/68
    Boccaccio Boccaccino

    Zingarella

    Vi è invece in lei qualcosa di profondamente commosso e devoto che trova conferma nel delicato monile al collo: un pendente con un rubino al centro. Simbolo di carità e amore incondizionato, per il noto collegamento con il fuoco, il rubino ben si adatta all’immagine di una devota o di una Santa e anche le perle, disposte a croce, rimandano a Cristo e alla purezza del messaggio evangelico. La lenza, pur di difficile lettura collega la zingarella ad una Maddalena, raffigurata dallo stesso Boccaccino nell’Andata al Calvario di Londra (National Gallery): le due figure femminili sono infatti affini nei lineamenti del volto e per il tessuto del velo, malgrado esse lo indossino in modo diverso.

  • 46/68
    Piero di Cosimo

    Incarnazione di Cristo

    La pala, destinata alla cappella Tedaldi nella chiesa di Santa Maria dei Servi, a lungo fu ritenuta una rappresentazione dell’Immacolata concezione, un dogma che tuttavia riguarda Sant’Anna e il concepimento di Maria senza peccato. Qui invece la Vergine gravida sta in piedi su un basamento che, ricordando un sarcofago antico, mostra a rilievo la scena dell’Annunciazione, mentre sulla sua testa lo Spirito Santo di scorcio, illuminato da un fascio di luce, indica la fecondazione divina di Gesù.

    Incarnazione di Gesù e i santi Filippo Benizi, Giovanni evangelista, Caterina d’Alessandria, Margherita, Pietro e Antonino Pierozzi
    Architettura | Gli Uffizi
    Scheda opera
  • 47/68
    Piero di Cosimo

    Incarnazione di Cristo
    (Santa Caterina d'Alessandria)

    Ai lati si aprono, come un sipario sulla scena centrale, due ali di Santi tra i quali, genuflesse in contemplazione, si riconoscono le due vergini capitali: Caterina d’Alessandria a sinistra e Santa Margherita a destra. Contrariamente alla Vergine, del tutto disadorna, le due Sante hanno pochi monili discreti ma significativi. Santa Caterina ha lo scollo ornato di perle bianche e perfettamente sferiche a sottolineare la sua pervicace castità, dal momento che la Santa rifiutò la corte dell’Imperatore votandosi a Cristo. Le perle sono alternate a piccole gioie incastonate di rubini: essi sono quintessenza dell’elemento fuoco e rimando iconografico alla carità e all’amore incondizionato, nonché al martirio - in accordo con l’esegeta Bruno d’Asti - e al Cristo come Verbo incarnato secondo Rabano Mauro.

    Incarnazione di Gesù e i santi Filippo Benizi, Giovanni evangelista, Caterina d’Alessandria, Margherita, Pietro e Antonino Pierozzi
    Architettura | Gli Uffizi
    Scheda opera
  • 48/68
    Piero di Cosimo

    Incarnazione di Cristo
    (Santa Margherita)

    Margherita ha invece un fermaglio sulla spalla al centro del quale è incastonato un diamante attorniato da perle, segnali della sua Fede tenace (cfr. Ritratto di Battista Sforza e La Fortezza) e della Castità (cfr. Madonna con Bambino di Filippo Lippi) dimostrate con il rifiuto di un pretendente pagano. Entrambe martiri per aver difeso la loro purezza, le due Sante hanno gioielli simbolicamente equivalenti e lineamenti identici: due volti speculari della stessa qualità spirituale.

    Incarnazione di Gesù e i santi Filippo Benizi, Giovanni evangelista, Caterina d’Alessandria, Margherita, Pietro e Antonino Pierozzi
    Architettura | Gli Uffizi
    Scheda opera
  • 49/68
    Filippino Lippi

    Adorazione dei Magi

    L’opera, commissionata dai frati di San Donato a Scopeto nel 1496, doveva sostituire l’Adorazione dei Magi che Leonardo, in partenza per Milano, aveva lasciato incompiuta 15 anni prima. A differenza di quella leonardesca, la versione di Filippino contiene alcune citazioni di preziosi impiegate soprattutto per guidare l’attenzione dello spettatore sui ritratti medicei che vi sono raffigurati. Nei panni dei Magi, Giovanni e Lorenzo, figli di Pierfrancesco e cugini di Lorenzo il Magnifico, entrambi all’epoca viventi, recano in omaggio al Bambino un calice prezioso decorato da tre punte di diamante, un rimando esplicito alla casata.

    Adorazione dei Magi
    Architettura | Gli Uffizi
    Scheda opera
  • 50/68
    Filippino Lippi

    Adorazione dei Magi
    (Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici)

    Il dato più interessante è tuttavia la corona che un inserviente pone sulla testa del secondo Medici, un segnale inequivocabile di regalità assai ardito per un cittadino della Firenze repubblicana. Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici era, in quel momento, una figura chiave; aveva accompagnato Carlo VIII nella calata su Firenze del novembre 1494 e poco dopo la rivoluzione nella quale Piero il Fatuo figlio del Magnifico era stato spodestato, il suo ramo aveva acquisito rilievo. La corona è dunque il segnale delle aspettative che i frati committenti, in passato più volte protetti dalla famiglia Medici, avevano riposto soprattutto su Lorenzo.

    Adorazione dei Magi
    Architettura | Gli Uffizi
    Scheda opera
  • 51/68
    Filippino Lippi

    Adorazione dei Magi
    (Moro in abiti romani)

    Un altro dettaglio prezioso offre ulteriori considerazioni: una perla è appesa al nastro verde che orna la testa di un astante moro in abiti romani. Con la sua stessa presenza il moro rinvia al processo di conversione al Cristianesimo del multietnico mondo romano, l’orecchino d’oro ne è l’esotico e bizzarro ornamento, mentre la perla rappresenta un puntuale riferimento a Cristo. In una parabola evangelica citata da Matteo (Mt., 13, 45), il Regno dei Cieli è definito simile al buon mercante che va in cerca di belle perle e, trovatane una di grande valore vende tutto ciò che ha per comprarla. Secondo Clemente Alessandrino Cristo è la perla di grande valore del mercante della parabola e tale sembra poter essere, in quest’opera, l’eloquente ornamento del moro convertito al Cristianesimo.

    Adorazione dei Magi
    Architettura | Gli Uffizi
    Scheda opera
  • 52/68
    Raffaello

    Ritratto di Elisabetta Gonzaga

    La “lenza” di Elisabetta, ben esposta nel ritratto, dalla posizione frontale e abbellita dallo scorpione è un efficacissimo significante, un distintivo che si impone all'attenzione di chi guarda, qualificando la proprietaria. Escludendo sia il riferimento al segno zodiacale - la duchessa era nata sotto il segno dell'acquario – che  il suggerimento araldico, perché gli emblemi del suo casato non corrispondono, l’oggetto invoca una lettura basata sull’associazione fra il temibile aracnide e il diamante incastonato.

    Ritratto di Elisabetta Gonzaga, duchessa di Urbino
    Architettura | Gli Uffizi
    Scheda opera
  • 53/68
    Raffaello

    Ritratto di Elisabetta Gonzaga

    La punta della più dura delle gemme, simbolo di forza e resistenza (cfr. La Fortezza e Pallade e il Centauro), strumento usato per tagliare, incidere e sfaccettare tutte le pietre preziose, sul piano simbolico asserisce l'acutezza pungente dell'intelletto della duchessa mentre lo scorpione, attributo della dialettica documentato anche nella tomba di Sisto IV del Pollaiolo, illustra le sue doti oratorie. La posizione frontale e la forma evocativa della gioia da testa la rendono partecipe del muto ma diretto dialogo fra la Duchessa e il riguardante, trasformando l’ornamento in una sorta di minaccia, una promessa di taglienti e velenose ritorsioni a chi osi attaccarne la proprietaria. Sia nei versi di Cecco d’Ascoli che nel trattato di Camillo Leonardi si segnala l’efficacia del diamante contro i nemici. Quest’ultimo autore afferma che le pietre intagliate con figura di scorpione sono capaci di convertire i malevoli in benevoli al solo contatto con la ceralacca impressa dalla gemma.

    Ritratto di Elisabetta Gonzaga, duchessa di Urbino
    Architettura | Gli Uffizi
    Scheda opera
  • 54/68
    Raffaello

    Ritratto di Maddalena Strozzi

    Il pendente di Maddalena Strozzi, la giovane moglie di Agnolo Doni, ritratta en pendant con il marito, è, con ogni probabilità, un raffinato e prezioso dono matrimoniale. Esso reca tre gemme incastonate: uno zaffiro, un rubino e uno smeraldo ed è impreziosito da una perla a goccia di grandi dimensioni. Raffaello e i suoi committenti conoscevano approfonditamente i materiali nobili e le loro virtù grazie alla frequentazione di gioiellieri e lapicidi famosi come Valerio Belli e ai testi classici della letteratura lapidaria, come il trattato di Marbodo, L’Acerba di Cecco d’Ascoli e il De vita Coelitus comparanda di Marsilio Ficino. Le gemme incastonate raccontano la vitalità (rubino) la ricchezza (lo zaffiro) e la purezza (la perla) della proprietaria.

    Ritratti di Agnolo e Maddalena Doni (recto); Il Diluvio e Deucalione e Pirra (verso)
    Architettura | Gli Uffizi
    Scheda opera
  • 55/68
    Raffaello

    Ritratto di Maddalena Strozzi

    Nel pendente, il piccolo smeraldo incastonato nell’unicorno, realizzato con la tecnica della fusione a cera persa, è deputato a trasmettere un messaggio più intimo. Come gemma di Venere, secondo Marsilio Ficino, lo smeraldo è portatore di fertilità cosicché strategicamente posto nel ventre dell’animaletto, simbolo di castità, esso sembra potersi riferire al desiderio della dama di dare al marito un legittimo erede. Un’indicazione puntuale e verosimile alla luce del fatto che, al tempo del ritratto, databile al 1506/7, pur sposati da un po', i coniugi erano ancora in attesa di progenie. È poi ancor più verosimile che Maddalena fosse già in attesa dacché sappiamo che Maria, la primogenita, nacque l'8 settembre del 1507. Lo indicherebbero il volto appesantito, lo sguardo stanco e la posizione delle braccia, aspetti che hanno suggerito illazioni simili anche a proposito della Monna Lisa. In tal caso, Raffaello avrebbe assolto al delicato compito di rivelare al mondo lo gravidanza della protagonista servendosi di un gioiello.

    Nella medicina astrologica le gemme erano potenti medicine sia ingerite che indossate ed è dunque possibile che l’oggetto, eternato dal pittore nel ritratto della dama, non avesse solo il compito di descriverne il carattere ma anche quello di agire magicamente sull’indossante stessa: il rubino preservandone la salute (Cecco d’Ascoli), lo zaffiro, gemma di Giove, scacciando i nemici e attirando la benevolenza di Dio e degli uomini, infine la perla recando la serenità del cielo da cui si credeva generata (Camillo Leonardi) e l’influenza della luna necessaria ad ogni processo di gestazione (Marsilio Ficino).

    Ritratti di Agnolo e Maddalena Doni (recto); Il Diluvio e Deucalione e Pirra (verso)
    Architettura | Gli Uffizi
    Scheda opera
  • 56/68
    Raffaello

    Ritratto di Maddalena Strozzi

    Sia Maddalena che Agnolo nei rispettivi  ritratti indossano all’indice della mano sinistra un anello con diamante a tavola, simbolo di tenacia, che lo rende, in quest’epoca, la pietra prescelta per gli anelli maritali. Portata all’indice, il dito della dimostrazione, anziché al più comune anulare, la fede matrimoniale tradisce l’orgoglio dell’unione coniugale insito nel concetto stesso di doppio ritratto.

    Ritratti di Agnolo e Maddalena Doni (recto); Il Diluvio e Deucalione e Pirra (verso)
    Architettura | Gli Uffizi
    Scheda opera
  • 57/68
    Maestro del Ritratto Baroncelli

    Ritratto di Pierantonio Baroncelli e Maria Bonciani

    Dipinte da un ignoto maestro fiammingo, le due tavole - parti restanti di un trittico al centro del quale c’era forse una Vergine con Bambino - ci restituiscono le fattezze dei coniugi Pierantonio Baroncelli e Maria Bonciani, sposati nel 1489. A Bruges, dove si erano trasferiti, Pierantonio e Maria avevano un posto di rilievo nella società locale, come attestano anche i loro numerosi ornamenti.

  • 58/68
    Maestro del Ritratto Baroncelli

    Ritratto di Pierantonio Baroncelli e Maria Bonciani
    (Pierantonio Baroncelli)

    La croce d’oro con diamanti tagliati a tavola e perle pendenti al collo di Pierantonio segnala la fede del proprietario e la sua tenacia adamantina. Difficile dire se si tratti di un manufatto borgognone o fiorentino: certo è che, comunque, al tempo del ritratto i Paesi Bassi detenevano un primato nell’importazione dei diamanti dall’India, sebbene il taglio dei medesimi sia nato probabilmente in Italia. La spilla da cappello con la leggibile immagine della Madonna con il Bambino segnala, con la devozione a Maria, la partecipazione di Pierantonio alla spiritualità della sua città di adozione: Bruges, dove sia la cattedrale che la più esclusiva delle confraternite di laici maggiorenti (quella della Madonna dell’Albero secco) erano intitolate alla Vergine.

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    Maestro del Ritratto Baroncelli

    Ritratto di Pierantonio Baroncelli e Maria Bonciani
    (Maria Bonciani)

    Ha una funzione protettiva più che ornamentale la piccola gioia appuntata sull’abito di Maria Bonciani, dall’eloquente forma a conchiglia con una perla pendente, forse il ricordo di un pellegrinaggio a Compostela o un riferimento alla Vergine, di cui la dama porta il nome (cfr. Madonna con Bambino di Filippo Lippi). Un paternostro in corallo con un pendente a forma di agnus dei, la collega invece alla città d’origine: Firenze, al cui patrono, San Giovanni, si deve l’origine dell’epiteto agnus dei.

  • 60/68
    Maestro del Ritratto Baroncelli

    Ritratto di Pierantonio Baroncelli e Maria Bonciani
    (Maria Bonciani)

    Un sontuoso collare a motivi floreali di smalti colorati e perle, ricalcando il monile di Maddalena Portinari nel trittico di Hugo van der Goes, analogo per colori e manifattura, rimanda a Bruges, comune residenza di entrambe le donne nonché teatro delle loro storie intrecciate nel ruolo di mogli di ambiziosi e ricchi finanzieri fiorentini.

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    Albrecht Dürer

    Adorazione dei Magi

    Forse parte di un polittico eseguito per Federico il Saggio, l’opera raffigura nei tre doni dei Magi altrettanti capolavori di oreficeria rinascimentale. Oggetti veri che il pittore poteva aver visto nella bottega del padre o invenzioni di chi quell’arte la conosceva da vicino. Il personale coinvolgimento nel dipinto è testimoniato dal verosimile autoritratto di Dürer nel mago centrale biondo e barbuto, ornato di una collana a barbazzale e di un’altra catena d’oro a cui è appeso un gioiello con rubino, segnale di carità e rimando al cuore generoso del mago.
    Uno smeraldo circondato da perle sul fermaglio sottolinea la bellezza del mago richiamando la speranza di Redenzione. Egli reca in mano un vaso liturgico, una pisside destinata a contenere l’eucaristia per la comunione, forgiato in oro, il materiale eternamente uguale a se stesso, simbolo di divinità.

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    Albrecht Dürer

    Adorazione dei Magi

    Ha un valore analogo anche lo sferico contenitore in mano al mago nero, il cui coperchio culmina con la figura chiusa dell’ouroboros, il serpente che si morde la coda. Il messaggio di eternità è chiaro ma anche quello di sovranità considerato che il globo era, insieme allo scettro e alla corona, un’insegna regale (cfr. pala di San Giusto di Ghirlandaio). La terza pisside offerta dal mago inginocchiato ai piedi del Bambino ha la forma di un cofanetto. La foggia di quest’ultimo contenitore, più consona ad un reliquiario - simile all’esemplare in argento dorato e pietre dure di fattura fiorentina, ascritto alla seconda metà del XV secolo e conservato al museo dell’Opera del Duomo di Firenze - può essere un riferimento alla morte corporea del figlio di Dio, dunque un segno inequivocabile della sua umanità.

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    Hans Memling

    Ritratto di ignoto

    Non si conosce l’identità del protagonista di questo ritratto, opera del maestro tedesco Hans Memling, attivo nelle Fiandre alla fine del Quattrocento. Di certo era facoltoso come attesta tra l’altro il costoso collo di lince che ne rifinisce l’abito. La mano scorciata in primo piano mostra due anelli: uno all'indice e uno alla seconda falange del mignolo.

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    Hans Memling

    Ritratto di ignoto

    Nelle Fiandre del tardo Quattrocento gli anelli erano indossati da uomini e donne su entrambe le mani, tutte le falangi e tutte le dita fatta eccezione per il medio, il cosiddetto digitus infamis, ritenuto sin dall’epoca romana indegno di ornamento (Plinio XXXIII, 24) perché già allora usato per il noto gesto ingiurioso. Una concessione alla moda dunque, quella del protagonista del ritratto, ma capace di fornire qualche utile indicazione sul personaggio, verosimilmente un finanziere o un mercante con qualche incarico pubblico. Lo indicherebbe l’anello all’indice - definito più tardi, nella Fisiognomica della mano di Giovan Battista della Porta, il dito della dimostrazione - la cui piatta gemma rossa potrebbe avere una funzione sigillare. Sebbene poco leggibile, forse volutamente, l’oggetto mostra con orgoglio la posizione sociale del personaggio. Difficile dire con certezza se la scura gemma à cabochon incastonata nell’anello da mignolo sia un turchese come sembrerebbe indicare il colore, ma la posizione incompiuta alla seconda falange del dito suggerisce una funzione attiva nel dialogo con lospettatore e verosimilmente protettiva, urgente almeno quanto quella rappresentativa. A questa pietra era infatti riconosciuta la capacità di salvare il proprietario da ogni pericolo.

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    Hans Memling

    Ritratto di Benedetto Portinari

    Parte di un trittico con la Madonna e il Bambino con San Benedetto, la tavola fu ritenuta un ritratto di Benedetto Portinari, nipote di Tommaso Portinari raffigurato da Hugo van der Goes nel monumentale Trittico degli Uffizi e dallo stesso Memling nel ritratto conservato al Metropolitan di New York. 

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    Hans Memling

    Ritratto di Benedetto Portinari

    L’unico dettaglio che il presunto Benedetto ha in comune con Tommaso è un simile anello da mignolo interessante soprattutto per la posizione a segnalare con nonchalance l’esistenza di un ricco patrimonio sotto chiave (cfr. Ritratto di uomo con la medaglia). Sta di fatto che l’anello di questo mercante fiorentino residente nelle Fiandre è impreziosito da un minuscolo zaffiro  tagliato a tavola laddove quello di New York è verosimilmente à cabochon. Lo zaffiro si trova di frequente nei ritratti maschili. Gemma gioviale, era ritenuta in grado di attirare prosperità e la benevolenza di Dio e degli uomini nonché di proteggere dalle febbri improvvise e da ogni calamità naturale. Si intravede appena sulla camicia candida la presenza di una catena aurea cui sta appesa una lorgnette, o una lente,un oggetto indicatore di umana fragilità ma forse anche del desiderio o della necessità professionale di vedere con chiarezza sia in senso materiale che in senso spirituale.

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    Hans Holbein il Giovane

    Ritratto di Sir Richard Southwell

    Questo ritratto ha reso immortali, nei secoli, le fattezze di un personaggio noto, seppure non celeberrimo: Richard Southwell, cortigiano e uomo di fiducia del re Enrico VIII, qui nella veste ufficiale di funzionario di stato ornato di una catena a barbazzale e di una spilla da cappello con un cammeo figurato.

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    Hans Holbein il Giovane

    Ritratto di Sir Richard Southwell

    Il monile, antesignano di una moda che sarebbe fiorita una trentina d’anni dopo, è eseguito in commesso, una complessa tecnica orafa che, in un’unica figurazione a rilievo, accostava parti in oro liscio o smaltato a parti in pietra dura intagliata. Esso raffigura la testa e il busto di una donna mora dall’esotico copricapo a bande nere ed oro, una scelta figurativa non casuale data la strategica posizione della spilla nonché la perizia pittorica di Holbein e le sue note competenze come disegnatore di gioielli. Richard Southwell, gentiluomo della piccola aristocrazia inglese, aveva iniziato una brillante carriera politica fra il 1534 e il 1535 con la nomina a sceriffo della contea di Norfolk e Suffolk. All’inizio del 1535 aveva acquisito un ruolo ancor più significativo presso Enrico VIII prendendo parte attiva nella confisca dei beni ecclesiastici a beneficio della monarchia. In quello stesso anno il re rendeva esecutivo l’Atto di Supremazia divorziando dalla moglie Caterina d’Aragona per sposare Anna Bolena; così facendo aveva sollevato le ire, fra gli altri, del filosofo umanista Tommaso Moro, un membro illustre del governo che, rifiutatosi di firmare l’Atto, era stato imprigionato con l’accusa infamante di alto tradimento e condannato a morte. All’interrogatorio finale dell’umanista prese parte Richard Southwell e la data nel ritratto, 10 luglio 1536, celebra l’anniversario del fattaccio. La spilla da cappello di Southwell si riferisce a quella triste macchia attraverso un gioco di parole, un calembour di quelli in uso nel linguaggio delle imprese personali: infatti il soggetto del cammeo, in inglese black moor (per entrambi i sessi), richiamava per suono e grafia il cognome di Tommaso Moro all’epoca Moor, divenuto More solo in seguito.

Gioielli agli Uffizi

Un itinerario tra i misteri delle gemme dipinte

Revisione testi: Patrizia Naldini, Cristian Spadoni

Traduzioni: Eurotrad Snc.

Grafica: Andrea Biotti

Crediti fotografici Francesco del Vecchio e Roberto Palermo 

Nota: ogni immagine della mostra virtuale può essere ingrandita per una visione più dettagliata.

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