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Artiste agli Uffizi

  • Artiste agli Uffizi

    Autoritratti di donne nelle collezioni delle Gallerie

    Artiste agli Uffizi
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    Intro/01

    È noto che le Gallerie degli Uffizi annoverano fra le proprie raccolte la collezione di autoritratti più vasta e celebre al mondo; una collezione avviata nel XVII secolo dal cardinal Leopoldo de’ Medici e da allora costantemente accresciuta con acquisizioni e donazioni. Meno noto all’attenzione del pubblico è il fatto che fra moltissimi pittori e scultori, vi sono anche significative presenze femminili. Dei 413 autoritratti esposti dal 1973 nel Corridoio Vasariano, solo 21 erano autoritratti di donne artiste. 

    Appare quindi degno di riflessione considerare che quasi un secolo fa, nel 1923, usciva il volumetto Gli Autoritratti Femminili delle Gallerie degli Uffizi, di Bice Viallet, che presentava, per la prima volta, corredati di tavole in bianco e nero a tutta pagina e schede biografiche, una selezione di 30 autoritratti femminili fra quelli all'epoca in collezione.

    Occorreva attendere il 2010 perché al tema delle autoritratte degli Uffizi venisse dedicata la prima mostra e un nuovo (dopo quasi un secolo!) catalogo, frutto di studi approfonditi sui regesti inventariali (Autoritratte. Artiste di capriccioso e destrissimo ingegno, a cura di Giovanna Giusti). Grazie alla mostra, la collezione si incrementava di 20 presenze di artiste contemporanee che, rispondendo all’appello delle Gallerie, donarono il loro autoritratto.

    Questi pochi semplici numeri dimostrano con evidenza che ancora per tutto il XX secolo e oltre, davvero si è stati ben lontani dal raggiungere la tanto invocata parità di genere.

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    Intro/02

    Oltretutto, le opere di mano femminile in collezione non si limitano al genere dell'autoritratto, ma spaziano nella raffigurazione di molti altri soggetti, a tal punto che le Gallerie degli Uffizi possono vantare la collezione di donne artiste operanti entro il XIX secolo più grande al mondo.

    L’attuale Direzione delle Gallerie ha inteso dare una forte sterzata a questa tendenza, inserendo nel piano culturale istituzionale eventi a cadenza regolare, focalizzati sull'arte e creatività femminile. Alle mostre monografiche dedicate ogni anno a donne artiste, alle rassegne di 'genere' - significativa la mostra "Lessico femminile. Le donne tra impegno e talento 1861-1926", curata da Simonella Condemi nel 2019 e incentrata sul talento delle donne artiste presenti nelle collezioni della Galleria d'arte moderna di Palazzo Pitti  - si sono alternate performance, conferenze, eventi legati a particolari ricorrenze e a riflessioni su tematiche di genere. La collezione degli autoritratti, riordinata, tornerà a essere presentata negli ambienti per i quali fu originariamente concepita, quelli degli Uffizi. Nella sala - aperta da maggio 2021 quale anticipo ideale della suite di stanze dove a rotazione sarà allestita l’intera collezione degli autoritratti, maschili e femminili - i visitatori trovano oggi 4 autoritratte: Angelika Kauffmann, Elisabeth Vigée Le Brun, Adriana Pincherle, Yayoi Kusama. Mentre procedono gli studi e i lavori per rendere le artiste donne sempre più protagoniste degli spazi fisici dei nostri musei, la Direzione delle Gallerie ha voluto avviare un progetto di progressiva, sistematica digitalizzazione delle opere di autoritratte nelle collezioni. Dalla sezione ‘Opere’ del sito sarà possibile a chiunque, in qualsiasi momento, consultare le schede descrittive delle autoritratte e navigare in una galleria virtuale alla scoperta di donne che, nei secoli, hanno lasciato traccia di sé in un’opera (o più) di collezione. La presente mostra virtuale, pensata come omaggio degli Uffizi a tutte le donne in occasione dell’8 marzo, ci accompagna alla scoperta di storie di artiste in una selezione che non a caso si apre temporalmente alla fine del XVIII secolo, quando due donne si imposero sulla scena internazionale grazie al loro eccezionale talento, determinazione e capacità imprenditoriale: Angelika Kauffmann e Elisabeth Vigée Le Brun. Loro contemporanea è Jeanne Elisabeth Chaudet, scelta per una recente acquisizione, con un dipinto che non è un autoritratto, ma entra in questo bouquet virtuale poiché ugualmente dimostra la piena capacità di gareggiare, armi pari, con la controparte maschile. Davvero singolare la figura e la storia di Anne Seymour Damer, donna eccezionalmente libera e talentuosa, dedita a una prassi artistica tradizionalmente ritenuta di dominio unicamente maschile, ovvero la scultura in marmo: per oltre un secolo, il suo autoritratto rimarrà l'unico scultoreo della collezione.

    Da questo scorcio di fine Settecento, singolari storie di donne si dipanano per tutto il secolo successivo. L’essere artista donna è sempre meno un evento eccezionale o circoscritto a un esercizio privato previsto nell’educazione della signorina di buona famiglia, ma diviene vera e propria professione: esemplare in tal senso Thérèse Schwartze, affermata ritrattista dell’alta società e della famiglia reale olandese, ma anche punto di riferimento delle giovani pittrici di Amsterdam.

    Nel corso del Novecento, le storie di autoritratte accompagnano con la loro specifica necessità di emergere tutti gli eventi storici e i connessi movimenti ideologici e culturali che hanno contraddistinto il secolo breve.  Fra urgenze di rottura e bisogno di appartenenza, con una creatività finalmente libera ed estesa alla pratica di qualsiasi genere e tecnica (dalla pittura alla fotografia, dalla poesia visiva all’happening), le autoritratte degli Uffizi continuano ad offrire nuove storie di affermazione del sé, in un mondo che, ancora oggi, spesso è declinato al maschile.

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    Anne Seymour Damer

    Sevenoaks (UK) 1748 – Londra 1828

    Autoritratto

    1778
    Marmo
    Inventario 1914 n. 562

     

    Proveniente da una famiglia benestante, cugina ed amica del grande scrittore inglese Horace Walpole, col quale condivise un carattere libero e spregiudicato Anne Seymour ebbe un ingegno vivace, essendo stata non solo una talentuosa attrice ed una notevole scrittrice, ma anche una scultrice professionista. Walpole, le lasciò l’usufrutto della sua villa neogotica a Strawberry Hill, dove, dopo la sua morte nel 1797, ella visse almeno fino al 1810 assieme alla madre rimasta vedova.

    Malgrado fosse costretta giovanissima ad un matrimonio di interesse con John Damer, figlio di Lord Milton, in seguito suicidatosi per i debiti contratti, Anne affermò sempre la sua indipendenza, e decise di dedicarsi alla scultura, sua grande passione, vincendo i pregiudizi di una società profondamente maschilista ed eseguendo, la sua prima effige marmorea, una Niobide, come recita l’iscrizione in latino posta sul retro: “Opus Primum”. La sua educazione artistica si svolse dapprima presso lo scultore anglo romano Giuseppe Ceracchi, ed in seguito presso il modellatore John Bacon. Intorno al 1777 Ceracchi ritrasse le sembianze della sua allieva a figura intera con la statuetta del Tamigi in mano, in veste di Musa della Scultura (Londra, British Museum), opera in seguito acquistata dal padre di Anne.

    Fu probabilmente in questo periodo che la Seymour fu introdotta nel mondo aristocratico ed intellettuale inglese, entrando in contatto col pittore Joshua Reynolds, mentore dello stesso Ceracchi ed estimatore del talento di Anne: un riconoscimento confermato dal ritratto che le fece il grande pittore inglese (Londra, National Portrait Gallery). Una rara immagine di John Downman la mostra invece all’età di 43 anni, intenta a scolpire il busto del Principe polacco Lubomirski come Bacco (Oxford, Ashmolean Museum).

    Il presente busto marmoreo, donato dall’artista stessa agli Uffizi, fu eseguito nel 1778 secondo un’impostazione di impronta ancora fortemente idealizzante ed ispirata alla scultura classica, come attesta anche la firma sulla base in caratteri greci, secondo un gusto antiquario frequente nelle opere da lei eseguite. Quando, nel 1912, il Direttore delle Gallerie degli Uffizi ammise nella serie degli autoritratti anche quelli di scultori, soltanto questo della Damer era incluso nella collezione granducale.

    Anne Seymour fu sepolta nella chiesa di St. Mary, a Sundridge nel Kent, assieme all’amata madre, Caroline Campbell, ritratta dalla figlia in un busto all’antica, destinato ad ornare la sua tomba. Anne dispose di essere sepolta assieme al suo cane prediletto e con gli strumenti del suo lavoro, gli stessi con i quali volle effigiarla in un bel disegno l’amico Richard Cosway.
    Nella villa di Strawsberry Hill si può ammirare la più ampia collezione di sculture della Seymour: si tratta di dodici opere, di cui quattro medaglioni in cera affini allo stile di Isaac Gosset.

    Nel 1780, Walpole commentava la carriera di Anne e ne esaltava il coraggio di aver scelto un’arte assai più difficile ed inusuale per una donna rispetto alla pittura. Malgrado non avesse ricevuto una formazione accademica regolare, godette di una certa reputazione nel mondo artistico, al punto che espose oltre 30 sue opere alla Royal Academy di Londra ininterrottamente dal 1784 al 1818 ricevendo anche importanti commissioni pubbliche di carattere monumentale, come la statua di Re Giorgio III per Edimburgo. Scolpiva in particolare animali, soprattutto cani e gatti, ma anche personaggi pubblici come l’Ammiraglio Nelson che posò per lei a Napoli. Fu amante dei viaggi, tanto che in occasione del Gran Tour in Francia conobbe Josephine Bonaparte e lo stesso Napoleone il quale le donò un diamante con inciso il suo ritratto (Londra, British Museum).

    Il comportamento dell’artista, disinvolto e poco incline ai compromessi, alimentava le chiacchiere dei benpensanti, i quali la definivano una “Saffista” e la additavano scandalizzati per le sue abitudini virili, per l’abbigliamento tipicamente maschile – portava scarpe, giacca e bastone da uomo -, e soprattutto per le relazioni sentimentali che ebbe con alcune donne come l’attrice Elizabeth Farren e la scrittrice Mary Berry.

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    Angelika Kauffmann

    Coire (CH) 1741 – Rome 1807

    Autoritratto

    1787
    Olio su tela
    Inventario 1890 n. 1928
    Firmato e datato: Angelica Kauffmann Pinx Romae 1787

    Formatasi col padre, ritrattista e decoratore di chiese, Angelika Kauffmann ricevette una raffinata educazione letteraria e musicale, alimentata da frequenti viaggi, che perfezionarono il suo talento e la portarono ad affermarsi fin dalla giovane età a livello internazionale. Tanti i riconoscimenti che conquistò: venne eletta nell’Accademia del disegno di Firenze, nell’Accademia Clementina di Bologna, nell’Accademia di San Luca a Roma, e fu tra i fondatori, a Londra, della Royal Academy, prima donna artista assieme a Maria Moser. Fu intima amica di Joshua Reynolds, di Johann Wolfgang Goethe, di Johann Joachim Winckelmann, e a Roma, dove si stabilì a partire dal 1782, fu l’anima di un salotto frequentato da tutti gli intellettuali dell’alta società, assieme al marito, il pittore veneziano Antonio Zucchi.

    La genesi del suo autoritratto è ben nota. La celebre collezione granducale di autoritratti agli Uffizi possedeva dal 1772 un autoritratto dell’artista all’età di 18 anni in costume di Bregenz, città d’origine della famiglia. Il piccolo dipinto era stato da lei consegnato a Cosimo Siries, orefice e collezionista al servizio della corte granducale di Firenze, che lo aveva venduto alla Real Galleria. Giunta all’apice di una brillante e affermata carriera, Angelika ritenne che quella sua immagine giovanile, acerba anche nella tecnica, non la rappresentava degnamente, né tantomeno onorava la compagnia degli altri valenti artisti dell’illustre collezione. Così la pittrice palesò il suo desiderio di offrire alla Galleria un altro autoritratto, più elaborato, a testimonianza dell’avanzamento della sua arte, affermando ch’ella s’era perfezionata “nella sua professione e che si era fatta un nome, specialmente in Inghilterra”. Il nuovo autoritratto giunse nel luglio 1788 e fu accolto con tutti gli onori: l'allora Direttore degli Uffizi, Giuseppe Bencivenni Pelli, nel ringraziarla del dono, le inviò una medaglia d'oro con ritratto del Granduca Pietro Leopoldo e il dipinto fu collocato accanto al divino Michelangelo, con grande soddisfazione di Angelika.

    La pittrice, consapevole dell’ufficialità e del prestigio della destinazione, aveva elaborato un’immagine di sé idealizzata, che dichiarasse la sua predilizione per la cultura classica: seduta in una loggia aperta, con gli attributi dalla Pittura, Angelika veste  un candido chitone bianco,  impreziosito da una cintura ornata da gemme antiche; spicca tra queste il pregevole cammeo con ‘Athena e Poseidon in gara per il possesso dell'Attica’ presente fin dal 1465 tra i beni di Piero di Cosimo de' Medici ed oggi conservato al Museo Nazionale di Napoli. L’episodio, tratto dalle Metamorfosi di Ovidio, sottolineava la superiorità della figura femminile su quella maschile, con evidenti intenti autobiografici.

    Nel novembre 1789 Elisabeth Vigée Le Brun, in visita alla Galleria, rimase colpita dal dipinto della collega svizzera “Ho ammirato con un certo orgoglio in questa galleria quello di Angelika Kauffmann, una delle glorie del nostro sesso” (Souvenirs). Il desiderio di competere con Angelika, unitamente all’onore della destinazione, spinsero la Vigée Le Brun ad accettare l’invito di aggiungere un suo autoritratto alla collezione fiorentina. Il faccia a faccia tra le due artiste non sfuggì ai contemporanei: ad esempio Winckelmann li confronterà privilegiando l’autoritratto della Kauffmann a sfavore di quello della Vigée Le Brun, considerato, in maniera spietata, come troppo ostentatamente determinato dalla volontà di piacere.

    Angelika morì a Roma il 5 novembre 1807. Al funerale, organizzato da Antonio Canova; parteciparono gli accademici di San Luca e i più famosi artisti e letterati. Fu sepolta accanto al marito in Sant’Andrea delle Fratte e l'anno seguente fu collocato un suo busto nel Pantheon.

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    Elisabeth Louise Vigée Le Brun

    Parigi 1755 – 1842

    Autoritratto

    1790
    Olio su tela
    Dono dell’artista, 1791
    Inventario 1890 n. 1905

    Quando Elisabeth Vigée Le Brun lasciò Parigi per sfuggire ai moti rivoluzionari, era all’apice della sua carriera. Figlia del pastellista Louis Vigée, Elisabeth aveva sposato il più grande mercante d’arte dell’epoca, Jean Baptiste Pierre Le Brun. Nel 1873 era divenuta membro della Académie Royale e godeva della protezione dei reali di Francia.

    Arrivò in Italia con la figlia alla metà del novembre 1789 e, prima di raggiungere Roma, sua destinazione, si fermò a Firenze, dove ricevette autorizzazione a visitare Palazzo Pitti e la Galleria degli Uffizi. Proprio agli Uffizi ebbe occasione di ammirare la collezione di autoritratti che il principe Leopoldo de’ Medici aveva inaugurato nel Seicento. Tra le effigi di artiste in mostra fu particolarmente colpita dall'autoritratto della sua contemporanea, la pittrice svizzera Angelika Kauffmann, aveva dipinto due anni prima. L’allora direttore Giuseppe Bencivenni Pelli approfittò per chiederle di aggiungere anche la sua immagine alla prestigiosa collezione ed Elisabeth accettò con entusiasmo, invogliata anche dal confronto con la celebre collega.

    Giunta a Roma, l’artista non perse tempo e si dedicò al suo autoritratto lavorando in un appartamento in Palazzo Mancini a Roma, dove era ospite dell’Accademia di Francia. In due mesi e mezzo terminò l’opera: “Mi sono ritratta con la tavolozza in mano, dinanzi a una tela su cui sto disegnando la regina col gesso bianco”. La pittrice aveva concepito il quadro come un doppio ritratto in omaggio alla sua regina, Maria Antonietta, dimostrando così la sua lealtà verso l’ancien régime, che l’aveva protetta e valorizzata. Rivolta verso chi guarda Elisabeth sfoggia l’amabile, accostante sorriso che aveva caratterizzato i suoi autoritratti precedenti. L’elegante veste di seta nera che indossa, rimando all’ufficialità del suo rango, è accesa dal rosso saturo della fusciacca che le stringe la vita cadendo sulla gonna. Sui riccioli bruni veste un turbante di panno bianco che ricorda i copricapi usati da Rembrandt in numerosi autoritratti. Il risultato è un’immagine fresca e vitale, che esalta la bellezza gentile della donna, dichiarandone altresì il suo talento di artista. L’accoglienza al dipinto fu entusiasta. A Roma Elisabeth ricevette il plauso dell’Accademia di San Luca e a Firenze, dove l’autoritratto arrivò il 26 agosto del 1791, Il Granduca di Toscana Ferdinando III lo giudicò un tale capolavoro da non volerlo sottoporre al giudizio dei professori della Reale Accademia di Belle Arti, come era solito fare.

    “Amici miei, saprete tutti che la mia pittura per Firenze ha avuto il più grande successo. Tanto che mai in vita mia sono stato così incoraggiata. Me ne rallegro tanto più, in quanto i romani (in parole povere) non accordano quasi mai nulla alla nostra scuola e per me non hanno mai avuto il più grande entusiasmo. Mi chiamano Madame Van Dyck, Madame Rubens, e con altri nomi più nobili.”

    Elisabeth soggiornò in varie altre corti europee e tornò a Parigi nel 1802. Il suo autoritratto venne più volte replicato, inciso e copiato soprattutto nell’Ottocento.

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    Jeanne-Elisabeth Chaudet

    Parigi 1761 – 1832

    Ritratto dello scultore Antoine-Denis Chaudet

    1802 c.
    Olio su tela
    Inventario 1890 n. 10783

    Il presente ritratto mostra il grande artista ancora piuttosto giovane, come risulta anche dal confronto con quello dipinto da Jean-Baptiste Desmarais all’età di circa venticinque anni, nel 1788, quando lo scultore si trovava presso l’Accademia di Francia a Roma, dove, dopo l’alunnato presso Jean-Baptiste Stouf e Etienne-Pierre-Gois, trascorse cinque anni, grazie al Grand Prix di Scultura ottenuto nel 1784 col bassorilievo Giuseppe venduto dai suoi fratelli.

    Tuttavia, a differenza dell’immagine che ci ha lasciato Desmarais - il quale lo coglie in atteggiamento malinconico ed immerso nei propri pensieri, riflettendone la fragilità fisica ed il carattere tormentato -, in questa effigie Chaudet ha un’espressione fiera e consapevole del suo ruolo di artista. Indossa una camicia dall’ampia e ricca scollatura sotto la giacca verde ed ha in mano gli strumenti del mestiere: lo stiletto e il blocco dei disegni dal quale si intravedono spuntare alcuni schizzi. Come era usuale, anche in questo caso l’artista è presentato nel suo ruolo di disegnatore più che di scultore, quasi a sottolineare che la scultura non rientrava nell’ambito delle mere attività manuali, ma comportava molta concentrazione e riflessione, attraverso la fase disegnativa preliminare alla realizzazione delle opere scultoree.

    Il ritratto, databile intorno al 1802 ed oggetto di una recente acquisizione delle Gallerie degli Uffizi, sembra riconducibile ad un periodo particolarmente felice nella vita di Antoine: al suo rientro in Francia egli conobbe infatti Jeanne-Elisabeth Gabiou, una giovane pittrice che si era formata con Elisabeth Vigée Le Brun e che divenne sua allieva. I due si sposarono il 14 aprile del 1793 e rimasero insieme fino alla morte dello scultore, avvenuta nel 1810.

    Malgrado il dipinto non sia firmato, esso risulta certamente di mano di Elisabeth Chaudet, autografia confermata peraltro dalla maggiore studiosa della pittrice, Charlotte Foucher Zarmanian, autrice di un lungo saggio dedicato all’artista francese.

    Dopo la morte di Antoine-Denis Chaudet, Elisabeth sposò in seconde nozze, Pierre-Arsène-Denis Husson, alto funzionario delle finanze, divenuto un anno dopo Archivista della Corona di Luigi XVIII di Francia. Questa seconda unione non mise fine alla sua carriera di artista, dato che ella continuò ad esporre al Salon fino al 1817, prima di morire di colera, all’età di sessantacinque anni, nel 1832. Nel 1843 il suo secondo marito legò al Musée des Beaux-Arts di Arras ben dieci dipinti di Elisabeth, nove dei quali andarono distrutti durante un bombardamento nel luglio 1915.

    Dopo il debutto al Salon de Correspondance, Jeanne-Elisabeth partecipò regolarmente alle esposizioni pubbliche del Louvre dal 1796 al 1817 riscuotendo un discreto successo sia di critica che di pubblico. L’artista ottenne un ampio consenso soprattutto raffigurando bambini in contesti famigliari e in situazioni particolari che li vedevano assumere un ruolo da protagonisti. Così facendo ella giungeva ad una fusione tra il ritratto e la pittura di genere. Nel campo della ritrattistica ottenne la fama nel 1798 col Ritratto di Mme Gérard e confermò poi la sua popolarità con Una fanciulla che vuole insegnare a leggere al suo cane, un’opera che colpì i recensori sia per l’originalità del soggetto che per le qualità esecutive, dimostrando da un lato il nuovo ruolo accordato all’infanzia tra il XVIII e XIX secolo, sulla scorta delle teorie di L'Emile di Jean-Jacques Rousseau, dall’altro riallacciandosi alla pittura di Jean-Baptiste Greuze per i soggetti infantili e di genere, pur distaccandosene nello stile.

    Tra le altre opere ispirate ai temi dell’infanzia, possiamo ricordare Il Bambino addormentato sotto lo sguardo di un cane coraggioso (1801, Rochefort, Musée d’Art et d’Histoire), o la Fanciulla che dà da mangiare ai polli, firmato e datato 1802 (Arenenberg, Napoleonmuseum) che fu acquistato dall’imperatrice Joséphine. Ad ulteriore riprova della sua abilità ritrattistica unita all’originalità nel rappresentare l’infanzia, nel 1806 Jeanne-Elisabeth Chaudet espose il ritratto di Maria Laetitia Murat (Ajaccio, Musée Fesch) dove la giovane principessa è raffigurata non come nei ritratti di apparato ovvero come un’adulta in miniatura, ma con la sua personalità tipica di bambina giocosa e allegra. L’artista seppe conferire a questi soggetti un carattere di naturalismo ed una verità di sentimenti che, secondo i commentatori del tempo, superava i limiti e le convenzioni del genere, per divenire un esempio dell’evoluzione del ruolo dell’infanzia nella società del suo tempo, facendosi veicolo di significati edificanti e di valori morali.

    Malgrado una carriera artistica di un certo rilievo, dopo la sua morte la fortuna critica di Elisabeth Chaudet subì un destino simile a quello di altre donne artiste vissute nel periodo post rivoluzionario, le quali, dopo aver riscosso un certo successo ai loro tempi, caddero nell’oblio della storia dell’arte francese. Fu grazie alla mostra del 1974, De David à Delacroix. La peinture française de 1774 à 1830, dove fu esposto il dipinto Una fanciulla che piange un piccione morto del 1808 (Arras, Musée des Beaux Arts), che la produzione della pittrice fu in parte riscoperta.

    Ritratto dello scultore Antoine-Denis Chaudet
    Architettura | Gli Uffizi
    Scheda opera
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    Elisa Counis

    Firenze 1812 – 1847

    Autoritratto

    1839
    Olio su tela
    Inventario 1890 n. 2096

    Il volto ovale dall’incarnato di porcellana, incorniciato dalla pettinatura in voga, divisa in due ciocche che ricadono lateralmente in morbidi boccoli: sono queste le caratteristiche che tratteggiano l’immagine della talentuosa pittrice Elisa Counis, figlia del pittore ginevrino Salomon-Guillame Counis.

    Ella si presenta all’osservatore con in mano i ferri del mestiere, come era consuetudine nel manifestare consapevole orgoglio per la reputazione raggiunta come artista, senza tuttavia trascurare alcuni particolari che assecondavano la moda del momento, come l’abito scuro dall’ampia scollatura arricchita da un colletto ricamato che risalta sul petto. In particolare, sappiamo che la Counis godette della protezione della sorella di Napoleone e Granduchessa di Toscana, Elisa Bonaparte Baciocchi, tanto da portarne il nome e da appuntarsi a mo’ di spilla sul petto un delicato cammeo con la sua effigie di profilo.

    Questo è l’unico ritratto dell’artista finora rintracciato, dal quale risulta difficile valutare il talento artistico menzionato dal padre. Di quest’ultimo, celebrato disegnatore di cammei, le Gallerie degli Uffizi conservano ben due autoritratti: uno ovale in miniatura su rame in smalto, eseguito a Parigi nell’atelier di Girodet. Counis risiedeva infatti nella capitale francese prima di essere chiamato a Firenze nel 1810 alla corte di Elisa Baciocchi. Qui eseguì molti smalti con la tecnica della tradizione ginevrina, e vi rimase fino alla caduta di Napoleone. Rientrato a Parigi fece poi dono agli Uffizi del ritratto dell’amata figlia, morta precocemente alle Gallerie, assieme al suo in miniatura, a tre ritrattini femminili e ad un altro suo ritratto con in mano una miniatura dello Spasmo di Scilla di Raffaello, uno dei suoi celebri smalti. Della figlia Elisa la “Gazzetta di Firenze” nel 1844 citava invece un suo ritratto femminile presentato all’annuale esposizione accademica.

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    Ida Botti Scifoni

    Roma 1812 – Firenze 1844

    Autoritratto

    1839
    Olio su tela
    Inventario 1890 n. 1938

     

    La pittrice romana Ida Botti Scifoni si rappresenta di tre quarti, mentre si volge con uno scatto verso lo spettatore, lo sguardo languido e profondo, l’espressione dolcissima e rassicurante sottolineata dalla capigliatura bruna pettinata secondo la moda del momento, con scriminatura centrale, treccia avvolta sulla nuca e cascate di boccoli ad incorniciare il volto dai lineamenti delicati. L’abbigliamento austero e privo di orpelli è impreziosito dall’ampio scialle a fiori e righe bianche, rosse e verdi, quasi ad alludere ai colori della futura bandiera italiana.

    La sua formazione si svolse prevalentemente a Roma, dove apprese i primi rudimenti della pittura, dedicandosi poi al ritratto ed alla natura morta, considerati al tempo i generi più adatti alle poche donne che all’epoca si applicavano alle arti figurative. Si cimentò in seguito anche nelle composizioni storiche e nella pittura di genere con pregevoli tele, quali Il Cittadino romano e San Francesco Saverio. Trasferitasi poi a Firenze, sposò il patriota e letterato Felice Scifoni, affiliato alla Carboneria e qui in esilio dal 1833, dove scontava la pena per aver partecipato ai moti di Romagna. Ida Botti continuò la sua carriera artistica, prima come allieva di Giovanni Salvagni, poi come artista autonoma, ritraendo alcune nobildonne del tempo, tra le quali figurano Maria Mercede di Bonilla e Matilde Bonaparte. In particolare con quest’ultima, figlia di Girolamo Bonaparte re di Wesfalia e fratello di Napoleone, e dal 1841 consorte del principe e magnate russo Anatolio Demidov, stabilì un vero e proprio connubio artistico, culturale ed affettivo: la principessa Matilde fu allieva e compagna di avventure pittoriche di Ida prima e dopo il matrimonio con Anatolio, e teneva in grande considerazione il giudizio della fidata amica pittrice, tanto da ricorrere ai suoi consigli nella scelta degli arredi e dei parati che dovevano contribuire ad arricchire la splendida villa dei Demidov di San Donato a Firenze, sorta di casa museo, nota per la profusione delle decorazioni e per l’importanza della collezione di opere d’arte. Sappiamo che Matilde si lasciava guidare dalla Scifoni persino nella scelta dell’abbigliamento e che il suo ruolo di esperta conoscitrice dell’arte del suo tempo l’aveva accreditata presso la famiglia dei Demidov, ai quali suggeriva la disposizione di dipinti e sculture. La stima riservata ad Ida Botti dai coniugi Demidov è avvalorata dal fatto che il figlio della pittrice fu tenuto a battesimo da Anatolio e che, secondo il ricordo di Telemaco Signorini, quando era un bambino trascorreva le giornate a giocare nel sontuoso parco della villa di San Donato in compagnia del compositore Luigi Gordigiani. Ida Botti presentò poi a Matilde Bonaparte la letterata Amelia Caiani, contribuendo a creare nel salotto della villa Demidov una sorta di enclave femminile dove si discuteva di moda, di vestiti, di balli e di argomenti artistici. Ad eternare la memoria dell’amica artista, Matilde Bonaparte volle destinare questo dipinto alla collezione degli autoritratti degli Uffizi come attesta una lettera autografa datata al 1846, mentre sulla sua tomba nel chiostro di Santa Croce lo scultore Pietro Freccia pose nel 1869 il busto in marmo, un ventennio dopo averne esposto il modello in gesso alla mostra dell’Accademia di Belle Arti del 1844, anno della morte precoce della pittrice.

     

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    Luisa Grace Bartolini

    Bristol 1818  -  Firenze 1865

    Autoritratto

    1860-65
    Olio su tela
    Inventario 1890 n. 3330

     

    Il color pallido, quasi di perla, prendea vaghezza dai colori riflessi di una folta capigliatura castagna e solennità dallo splendore quieto e contemplativo degli occhi neri nella fronte pura e spaziosa: con queste parole, Giosué Carducci ricordava Louisa Grace Bartolini. Così ella appare anche in questo autoritratto che la mostra in giovane età, le due bande scure di capelli ad incorniciare il volto perlaceo, la fronte spaziosa, gli occhi scuri e vivaci. Malgrado l’aspetto etereo, dal suo sguardo e dal gesto sicuro dell’artista traspare tutta la determinazione e fermezza che la qualificavano come  la “Vergine di Ossian”, un appellativo assolutamente appropriato datole ancora dal Carducci, quasi ad evocare i tratti fisici delle mitiche eroine celtiche scaturite dalla fantasia di James Macpherson.

    Carducci le dedicò una biografia in commemorazione della morte precoce, avvenuta il 3 maggio 1865, a suggellare un’amicizia risalente al 1859 quando il giovane poeta insegnava greco e latino al liceo Forteguerri di Pistoia, dove Louisa Grace si era definitivamente stabilita con madre e fratelli fin dal 1841, in cerca di un clima più adatto alla sua salute malferma, rispetto a quello inglese, inizialmente risiedendo presso la casa di Niccolò Puccini, celebrato anche fuori dai confini toscani per il suo mecenatismo, il suo patriottismo e la sua filantropia; in seguito, dopo la morte dell’amato padre, sir William, fu affidata al religioso padre Angelico Marini, personaggio ben noto per le sue idee liberal-rivoluzionarie.  

    La stessa Louisa si identificò totalmente con la vita culturale della Toscana del tempo, rivendicando la propria lontana origine italiana e specificatamente toscana, a giustificare quei tratti fisici diversi da quelli comunemente associati ad una bellezza di tipo anglo-sassone. In effetti, malgrado avesse mantenuto abitudini ed atteggiamenti tipici dell’aristocrazia anglo-irlandese, la Grace coltivò esclusivamente amicizie italiane, dedicandosi alla poesia, alla pittura ed alla musica. Il suo status di straniera le permetteva di vivere in una condizione di relativa libertà rispetto alle donne di famiglia, coltivando i propri interessi e per questa ragione si sposò in età già matura con Bartolini.

    Tra coloro che la stimarono e ne esaltarono il fascino discreto e le virtù musicali e artistiche, ci fu anche il poeta modenese Antonio Peretti, esule per motivi patriottici, il quale amava non ricambiato la poetessa irlandese, "uscita dalle selve calidonie" e ne esaltava l’avvenenza eburnea, pur turbata da un’inquietudine che tuttavia mai incideva per nobile orgoglio, e per affetto altrui, sul pallido sembiante.

    Ella si presenta in una posa disinvolta, in compagnia dell’amata canina Lalla, consegnata alla storia come il cagnolino Flush di Elisabeth Barret Browning, mentre si intravede sulla destra un abbozzo di ritratto, presumibilmente quello paterno, a sancire i suoi grandi affetti. Sappiamo che ella si esercitava nel disegno e nella pittura di illustri maestri come ne attestano le lettere che dimostrano una protratta familiarità con l’ambiente artistico fiorentino e toscano.

    Negli ultimi anni della sua vita il clima di Firenze capitale e la nuova monarchia sabauda seppero brevemente rinverdire la passione civile e patriottica che l’aveva animata in gioventù. La vediamo dunque legarsi ad associazioni filantropiche e comitati unitari mentre le sue poesie si riassestano su intenti didascalici di ispirazione apologetica risorgimentale, come il canto all’Italia e a Garibaldi.

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    Thérèse Schwartze

    Amsterdam 1851 –1918

    Autoritratto

    1888
    Olio su tela
    Inventario 1890 n. 3122

     

    Il sapore settecentesco, fresco e raffinato insieme, che questo ritratto sfoggia, è una fiera affermazione del ruolo professionale esercitato dall’artista che si presenta citando un celebre e talentuoso precedente: sir Joshua Reynolds, che nell’autoritratto giovanile del 1749 si ritrae mentre si fa schermo con una mano sugli occhi e tiene gli strumenti del mestiere nell’altra.

    La pittrice era figlia d’arte: il padre, Johan Georg Schwartze, fu anch’egli ritrattista e investì tempo ed energie sulla formazione della figlia, enfant prodige che già a dieci anni dimostrava un brillante talento. Dopo un primo apprendistato con lui, Thérèse studiò alla Rijksakademie; dopo la morte del padre si spostò a Monaco, dove, tra mille sacrifici, studiò con Gabriel Max e Franz von Lenbach che la sostennero nonostante il veto all'iscrizione impostole dall’Accademia in quanto donna; tra 1874 e fine anni Ottanta si stabilì a Parigi dove entrò in contatto con la pittura tardo impressionista.

    Tornata in patria, si stabilì ad Amsterdam dove aprì uno studio attivissimo che ebbe importanti commissioni dall’alta società olandese e già dal 1881 anche dalla famiglia reale. Ricevette premi e riconoscimenti alla Royal Academy di Londra, all’Esposizione Universale del 1889 e al Salon parigino dove nel 1888 presentò questo autoritratto, poi giunto agli Uffizi nel 1895.

    Artista di grande successo, raccolse un’ingente fortuna economica e divenne punto di riferimento per le giovani pittrici olandesi che fondarono il gruppo delle “Amsterdamse Joffers”. Le “signorine di Amsterdam”, forse con una punta di ironia, si ritrovavano settimanalmente a casa Schwartze per aggiornare la gloriosa tradizione pittorica olandese di pittura di interni, nature morte e ritratti, sulla base delle novità impressioniste francesi. Si trattava di giovani esponenti di ceti benestanti, che quindi non contavano sui proventi del mestiere di pittrice per vivere (come era stato per Thérèse), ma la congrega fu comunque un’importante occasione di affermazione e riscatto per questo gruppo di donne che portarono la loro dedizione per la pittura fuori dalle mura domestiche e dall’alveo delle attività per signore e signorine di buona famiglia, essendo tra l’altro iscritte ad accademie o società di belle arti.

    Thérèse si sposò in età avanzata, nel 1906, e da quel momento iniziò a firmarsi adottando anche il cognome del marito, Anton van Duyl.

    Come altri ritrattisti dell’epoca, Thérèse Schwartze adottò la strategia di combinare una pittura definita per il volto con tocchi più ampi e rapidi per le vesti e lo sfondo. Qui il volto per metà in ombra evita ogni indugio sulla avvenenza femminile, per dirottare l’attenzione sull’identità professionale della giovane che sceglie di ritrarsi con un paio di occhiali, moderno strumento di lavoro.

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    Amelia Almagià Ambron

    Ancona 1877 - 1960

    Autoritratto

    1902 c.
    Olio su tela
    Inventario 1890 n. 9909

     

    La pittrice fu allieva di Antonio Mancini e amica di Giacomo Balla, collocandosi quindi esattamente su quel fortunato spartiacque che da una inquieta e raffinata cultura di fine Ottocento, apriva la stagione novecentesca delle avanguardie a cui l'Italia dette il suo contributo con il Futurismo.

    Dell'alunnato presso Antonio Mancini, pittore romano che aveva vissuto a lungo a Napoli, troviamo in questo dipinto l'interesse per la definizione psicologica; da lui dipende sempre la fattura pittorica che si fa morbida su capelli e vesti, indefinita sullo sfondo, più esatta sul volto, concentrando l'attenzione sugli occhi, fulcro espressivo di grande intensità. Per questo scopo la Ambron adotta la pittura mobile, estremamente sensibile agli effetti della luce perché stesa in maniera irregolare, sfruttando lo spessore stesso della materia (Mancini giungeva persino ad arrivare ad includere sabbia, frammenti vitrei e altro materiale nell'impasto cromatico). Anche la scelta di ritrarre il volto per metà in luce e metà in ombra rimanda alle inquietudini dei personaggi di Mancini: la donna guarda verso l'osservatore, volgendo gentilmente la testa verso la sorgente di luce; lo sguardo tra il malinconico e l'assorto, è animato da un breve riflesso di luce.

    Amelia, di famiglia ebraica, si specializzò sul genere del ritratto ma si dedicò volentieri anche a vedute e paesaggi. La sua inclinazione artistica fu sostenuta dalla famiglia, e lei a sua volta incoraggiò quella dei figli: Emilio divenne pittore, allievo di Giacomo Balla, Gilda fu pittrice e Nora violinista.

    Tra la villa nel senese (la tenuta di Cotorniano presso Casole d'Elsa) e la dimora di famiglia ai Parioli (detta “la moresca”), Amelia animò un salotto culturale molto vivace in cui oltre all'amico Balla, si recavano tra gli altri Filippo Tommaso Marinetti, Mario Tozzi, Giovanni Colacicchi e lo stesso Antonio Mancini. La pittrice visse con il marito tra anni '40 e '50 anche ad Alessandria d'Egitto dove ospitò lo scrittore britannico Lawrence Durrell.

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    Elisabeth Chaplin

    Fontainebleau (FR) 1890 - Fiesole 1982

    Autoritratto giovanile

    1902-1904
    Olio su tela
    Giornale n. 2748

     

    Elisabeth Chaplin nasce a Fontainebleau da William Chaplin e Marguerite Bavier Chaufour ma si trasferisce giovanissima a Firenze. Il talento artistico era di famiglia, suo nonno infatti era il famoso ritrattista Charles Chaplin, mentre la madre era una poetessa e scultrice di notevole qualità che eserciterà sulla figlia un sottile fascino intellettuale.

    In quest’opera, donata dall’artista alle Gallerie degli Uffizi nel 1974 assieme ad un ingente gruppo di dipinti, acquerelli e disegni, Elisabeth Chaplin si autoritrae all’età di 12 anni circa, mentre rivolge allo spettatore uno sguardo molto pacato e sereno che lascia trasparire tutto il suo candore e la dolcezza giovanile. In mano tiene un pennello e una tavolozza: già qui l’artista si mostra, dunque, nelle vesti di pittrice. La Chaplin infatti, fin all’età di tredici anni iniziò a recarsi a copiare i capolavori antichi delle gallerie fiorentine.

    Successivamente, fra 1906 e 1907, frequenterà gli studi del post macchiaiolo Luigi Gioli e dell’ormai anziano Giovanni Fattori.

    I colori sono molto caldi in questo dipinto e la stesura delle pennellate rimanda agli impressionisti, in particolare ad Auguste Renoir e Mary Cassatt, ma anche allo stile tardo di Silvestro Lega. Su questa solida base si svilupperà poi la sua pittura in forme sintetiche ispirate a Maurice Denis, con il quale collaborerà a partire dal 1932 ma con una ricerca intima e personale sulla luce e sul colore, che traspare già qui in nuce, nella capacità di distribuire con equilibrio controluce e contrasti.

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    Elisabeth Chaplin

    Nel corso della sua produzione artistica, Elisabeth si raffigura molte volte, in diverse fasi della propria vita, come attesta un altro dipinto giovanile, l’Autoritratto con ombrello del 1907, presente anche questo nella collezione degli Uffizi, nel quale l’artista si rappresenta all’età di 17 anni e in cui si fa sempre più evidente il richiamo allo stile maturo di Silvestro Lega. Sul retro della tela si legge una poesia scritta dalla madre Marguerite.

    Nella stessa collezione degli Uffizi figura anche un autoritratto più tardo, del 1910, dove l’artista è accanto alla finestra, dando le spalle alla chiesa di San Domenico che era visibile dalla dimora di Villa Levi, dove la famiglia resterà fino al 1911 per poi trasferirsi nella Villa Il Treppiede sempre a San Domenico.

    Per finire possiamo citare anche lo splendido Autoritratto con lo scialle rosso del 1912 dalle forme sintetiche e dalle accese cromie di ascendenza quasi fauve.

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    Marisa Mori

    Firenze 1900 - 1985

    Autoritratto

    1929

    Olio su tavola

    Inventario 1890 n. 10707

     

    “La prego di non fare una biografia, è quasi impossibile conoscersi […] Anche se la sottoscritta raccontasse ora per ora ciò che è avvenuto durante la sua lunga esistenza sarebbe lo stesso: non so neanche io quella che sono”. Così una Marisa Mori già settantottenne rispondeva ai primi, tardivi, riconoscimenti da parte della critica, tagliando corto sulla possibilità di definire se stessa e la propria esperienza artistica. Un pericolo, quello dell’incasellamento, da cui era sempre sfuggita muovendosi veloce tra molteplici forme di creatività, pittura, cinema, teatro, cucina, supportata da una tempra non comune e guidata da pensiero libero e anticonformista che ammise la compresenza di inclinazioni e attitudini diverse. Nata a Firenze nel 1900, a venticinque anni venne ammessa in quella straordinaria fucina di talenti, prevalentemente al femminile, che fu a Torino la scuola di Felice Casorati. Qui si formò accanto al maestro e al gruppo di promettenti allieve, da Jessie Boswell a Daphne Maugham, da Nella Marchesini a Lalla Romano, grazie a una ferrea disciplina di esercitazioni dal vero su nature morte, ritratti e vedute di paesaggio. L’autoritratto del 1929 restituisce in pieno il carattere di quella temperie: il cipiglio fiero inorgoglito dall’incremento dei successi espositivi e di vendita, ma anche la sintesi rigorosa della composizione nella quale spicca la macchia lilla dell’abito da lavoro privo di fronzoli, proprio come imponeva il regolamento quasi monastico della scuola. Con l’inizio degli anni Trenta l’esigenza di sprigionare nuove energie prese tuttavia il sopravvento. Fu allora che Marisa Mori si unì infatti al futurismo, senza rinnegare Casorati, ma con la gioia di poter sostituire ritmi e colori agli studi dal vero. La sua fu un’adesione repentina e incondizionata che la portò a partecipare fin dal 1932 a numerose mostre del movimento, facendosi apprezzare per un’originale interpretazione dell’aeropittura che sperimenterà in prima persona con un temerario volo acrobatico. Ma il futurismo permise soprattutto a Marisa Mori di liberare la sua inventiva in settori inesplorati: ecco dunque la ricetta Mammelle italiche al sole, la produzione di bozzetti pubblicitari, l’impegno in campo teatrale e cinematografico a fianco di Enrico Prampolini e Anton Giulio Bragaglia. Nel 1932 il ritorno a Firenze segnò il suo ingresso nei Gruppi futuristi indipendenti fondati da Antonio Marasco e dai fratelli Thayaht e RAM e, parallelamente, l’intensificarsi della sua partecipazione all’associazionismo femminile (l’Associazione Nazionale Donne Professioniste e Artista di Roma, la Pro Cultura femminile di Torino, il Lyceum di Firenze) e al dibattito sull’emancipazione delle donne. La promulgazione delle leggi razziali la indusse a prendere le distanze dal futurismo, offrendo rifugio nella sua dimora fiorentina agli amici torinesi Rita, Gino e Paola Levi Montalcini. Ciò nonostante nel dopoguerra mantenne costante la sua attività pittorica, continuando a dipingere dal vero, come le aveva insegnato Casorati, ma in modo libero e defilato, svincolata cioè da quella dimensione di lavoro collettivo che aveva sempre ricercato. Si spense a Firenze nel 1985, assistendo negli ultimi anni al recupero critico della sua opera.  

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    Cecilia Beaux

    Philadelphia (USA) 1855 – Gloucester (UK)1942

    Autoritratto

    1925
    Olio su tela
    Inventario 1890 n. 8551
    Firmato davanti in basso: Cecilia Beaux; sul retro iscrizione autografa: Autoritratto / Cecilia Beaux / New York / USA

     

    Cecilia Beaux è stata un’importante pittrice americana a cavallo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Prima di frequentare la Pennsylvania Academy of Fine Arts dal 1877 al 1879, Cecilia si forma per due anni con diversi pittori olandesi.
    Nel 1888, compie il suo primo viaggio in Europa, fondamentale per la sua formazione d’artista. A Parigi frequenta l'Académie Julien fino al 1891, dove è allieva di Tony Robert-Fleury e William Bouguereau. Durante questo periodo Cecilia viene selezionata per partecipare ai Salon degli artisti francesi, in cui viene anche premiata con una medaglia d’oro.
    Tornata a Filadelfia, ottiene numerosi riconoscimenti in America, e diventa la prima donna insegnante alla Pennsylvania Academy of Fine Arts.
    Negli ultimi anni dell’Ottocento Cecilia si stabilisce a New York dove diviene un’apprezzata ritrattista dell’alta borghesia,  e dove ha l’occasione di rappresentare diversi politici, scrittori e artisti di spicco, tra cui George Clemenceau, Teddy Roosevelt, sua moglie Edith e sua figlia. 
    Il suo stile si distingue per un sapiente gusto cromatico e per l’uso di una pennellata ampia e fluida, e viene spesso comparato dalla critica a quello dell’artista John Singer Sargent.

    L’autoritratto del 1926 viene realizzato su richiesta della Direzione della Galleria degli Uffizi. La pittrice, ormai all’età di settant'anni, si ritrae seduta sul divano e volta di tre quarti, in uno spazio dominato da molte tonalità di rosso, in cui solo l'incarnato della pelle si distacca dalla superficie. L’atmosfera è costruita da pennellate scure che sembrano addensarsi come nuvole, creando uno spazio severo ed autorevole, quasi funereo.

    Il portamento di Cecilia, è elegante e signorile, l’artista si rappresenta nelle vesti di una elegante borghese, ben vestita e pettinata. Il dettaglio delle tre bottigliette a destra ne individua il ruolo d’artista e non solo di gentile signora.

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    Adriana Pincherle

    Roma 1905 – Firenze 1996

    Autoritratto

    1931-32 c.
    Inventario 1890 n. 9642

     

    Adriana Pincherle si formò presto all'arte: pare che col padre pittore per passione, visitasse regolarmente la Biennale veneziana già a partire dal 1920. Frequentò inoltre i caffè letterari romani insieme al fratello minore, lo scrittore Alberto, poi noto con lo pseudonimo di Moravia. Fu amica degli esponenti della Scuola Romana, Scipione e Mafai in primis, con i quali condivise la ricerca di una pittura che si facesse materia viva, non solo superficie di colore ma impasto che struttura i volumi. Il tono dei numerosi autoritratti da lei eseguiti, è sovente ironico e autoironico, tratto che ne contraddistingueva l'indole e che meravigliosamente si sposa con una scelta cromatica accesa e vitale, derivata direttamente da Matisse e dalla pittura fauve, suo principale punto di riferimento visivo per tutta la sua produzione.

    Si sposò con un pittore, Onofrio Martinelli, prendendo dimora in via de' Bardi a Firenze. Durante il passaggio del fronte da Firenze, la coppia fu ospitata e protetta da Bernard Berenson a Vallombrosa, dai frati di San Domenico a Fiesole e dalla famiglia Bonsanti a Palazzo Strozzi, a causa dell'origine ebraica della donna.

    Fu stimata e prolifica ritrattista, tanto che Roberto Longhi ne apprezzò la cromia vivace: le sue pitture sono "come plastiline intrise di colori violenti". In questo dipinto, eseguito dopo il primo viaggio a Parigi, le forme rimandano alla sintesi di Modigliani, mentre la condotta pittorica morbida e il tono brioso del dipinto riportano alla più gioiosa pittura di Matisse. La posa disinvolta e divertita, rende questa tela un inno alla sua identità di donna e pittrice.

  • 17/28
    Niki de Saint Phalle

    Neuilly-sur-Seine (FR) 1930 – San Diego (USA) 2002

    Why don’t you love me?
    My love why did you go away?

    1968
    Serigrafia su carta
    Inventario 1890 n. 10579, 10580

    Dono della Fondazione Niki de Saint Phalle 2010

     

    Nata nel 1930 a Neuilly-sur-Seine, in Francia, e cresciuta a New York, Niki de Saint Phalle si dedicò giovanissima al teatro, alla letteratura, alla recitazione, viaggiando spesso in Europa e lavorando come fotomodella per Vogue e Life. Niki è una ragazza bellissima, ma sofferente e irrequieta: scappa di casa e si sposa con lo scrittore e musicista Harry Mathews, da cui avrà due figli; i due scelgono di vivere a Parigi, ma nel 1953, una crisi nervosa la costringe a ricoverarsi facendo emergere la dolorosa vicenda di abusi da parte del padre durante la sua adolescenza. Durante questo periodo di cure, Niki scopre il valore terapeutico della pittura, e sceglie di dedicarvisi.

    Gli anni ’60 saranno per lei anni densi di esperienze artistiche e incontri decisivi: acquista notorietà con i Tirs, o ‘Shooting paintings’: una serie di azioni in cui Niki, armata di carabina, fa esplodere sacchetti di colore su rilievi di gesso ottenendo astrazioni colorate quanto tormentate. Conosce lo scultore Jean Tinguely, col quale instaurò un fortissimo legame creativo e sentimentale. Si avvicina al Nouveau Réalisme, movimento fondato a Parigi, dove ebbe modo di collaborare con le maggiori personalità che vi aderirono (Arman, Cèsar, Christo, Daniel Spoerri).

    Affascinata dalla figura femminile e dalla sua potenza creatrice, Niki si cimenta nella produzione delle ‘Nanas’, sculture di grandi dimensioni, opulente e gioiose, realizzate in poliestere dipinto. Celebre è la prosperosa Hon, realizzata nel 1966 come ingresso al Moderna Museet di Stoccolma: la gigantesca Nana sta distesa di spalle e accoglie nel suo grembo i visitatori che poi escono nuovamente da lei come in un parto.

    A fianco di Jean Tinguely, che sposa nel 1971 dopo il divorzio dal primo marito, Niki affronta una serie di imprese artistiche di dimensioni monumentali come il “Paradiso fantastico” per l’Expò di Montreal; “Le Golem”, un mostro-scultura per un parco giochi a Gerusalemme, e una casa giochi, “Il Drago” a Knokke le Zout in Belgio. ‘Sono luoghi dove si poteva immaginare una nuova vita, semplicemente essere liberi’ commenta l’artista. Alla metà degli anni ’70 Niki intraprende la più grande avventura della sua vita: il Giardino dei Tarocchi nel comune di Capalbio (Garavicchio, Grosseto) nel sud della Toscana, un parco di 22 architetture e sculture ispirato agli Arcani Maggiori delle carte, a cui si dedicò fino al 1995. Le figure (alcune di cemento e altre di poliestere) vengono rivestite con mosaico di specchi, vetri e ceramiche colorate. Niki aveva coltivato il sogno di creare un giardino tutto suo, che celebrasse l’incontro tra l’uomo e la natura, fin dal 1955 quando aveva visitato il meraviglioso parco Guell di Antoni Gaudì a Barcellona. Nei vent’anni della sua dedizione al giardino, Niki ricevette altre prestigiose commissioni come la fontana Stravinsky (con Tinguely) accanto al Centre Pompidou a Parigi e un angelo alto dieci metri per la stazione ferroviaria di Zurigo.

  • 18/28
    Niki de Saint Phalle

    “Nelle mie scelte ho sempre usato il mio istinto più che la mia ragione, e molto spesso le mie scelte si sono rivelate giuste.” L’istinto aveva condotto Niki a cercare la gioia, l’amore, il sogno. La sua arte, che nasce come sfogo di un’anima tormentata, virò verso la vita, il gioco, il colore. Nelle due serigrafie agli Uffizi sono concentrati alcuni elementi del suo immaginario poetico. Niki traccia bizzarre e gioiose figure dai colori brillanti e iridescenti. Echi delle sue Nanas, e poi cuori, carte e un serpentello, accompagnando ogni disegno con i versi di una poesia che chiede e promette amore eterno.

  • 19/28
    Ketty La Rocca

    La Spezia 1938 – Firenze 1976

    Craniologia

    1973
    Radiografia, stampa fotografica, inchiostro su plexiglas, pellicola fotografica
    Inventario 1890 n.10566
     

    Ketty La Rocca è stata una delle protagoniste dell’arte italiana e internazionale tra la fine degli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta del XX secolo. Tra il 1964 e 1965 ha inizio la sua ricerca, influenzata dall’incontro con gli artisti dell’avanguardia fiorentina del Gruppo 70, fondatori della “poesia visiva". Il movimento fonda le sue ricerche su una riflessione filosofica ed estetica sul linguaggio: immagini e parole vengono unite, con l'intento di creare una nuova ed aggiornata comunicazione artistica che includa l’immediatezza della lingua parlata e della moderna pubblicità.

    Tra le prime opere di Ketty La Rocca, che rientra in questo filone, è la serie dei monogrammi di lettere-scultura in p.v.c. nero, in cui ricorrono la lettera I, che in italiano sta per “Io” e la J che in francese sta per “Je”. I due caratteri, nel linguaggio visivo, rappresentano il modo dell’artista di stabilire una relazione fisica con il mondo, divenendo simbolo dell’Ego dell’uomo. Questa ricerca porterà all’introduzione, in quasi la totalità del suo lavoro, della parola “you”.

    Con lo scioglimento del Gruppo 70 nel 1968, Ketty La Rocca continua a portare avanti la propria ricerca sulla natura ambigua della comunicazione, introducendo alle sue opere poetico-visive, nuove forme artistiche, passando dalla fotografia, ai video, ai libri d’artista e alle performances. Il suo lavoro si inserisce a pieno titolo tra le ricerche della seconda metà del Novecento che nell’aspirazione ad un'arte totale, sperimentano la commistione con nuovi media e pratiche multimediali.

    Questa Craniologia fa parte dell’ultima serie di opere dell’artista, la cui vita termina prematuramente a 38 anni a causa di una grave malattia. La drammatica esperienza è raccontata nella pratica artistica in forma di inconsueto e toccante diario per immagini. La Rocca infatti si serve delle radiografie del suo cranio, nel momento in cui le è stato diagnosticato un tumore cerebrale. L’immagine della sua testa viene contornata dall’artista dalla parola “you” scritta a mano, quasi a corrodere il bordo della superficie ossea. La ripetizione ossessiva della parola sembra rivolgersi alla sua malattia, assumendo un significato di preghiera e supplica verso un destino ormai inesorabile.

    La lastra viene sovrapposta da una fotografia della sua mano aperta, che sembra imprigionata all’interno del freddo involucro del suo cranio. Questo gesto istintivo sembra un tentativo di arrestare il suo destino: la sua carne viva si oppone al teschio immobile cercando di negare una fine imminente. La Rocca esplora ancora una volta il tema della comunicazione e del linguaggio spostando la propria analisi sul gesto primogenito ed autentico, infatti anche le mani grazie alla loro gestualità sono capaci di comunicare con estrema immediatezza.
    Nella serie Craniologie si ritrovano quasi tutti gli elementi presenti nel suo video Appendice per una supplica del 1969, presentato alla XXXVI Biennale di Venezia, in cui sulla pellicola scorrono le immagini di mani che cercano di afferrare un vuoto nero e su cui è tatuata ripetutamente la parola “you”.

    L’opera è stata donata dal figlio dell’artista, Michelangelo Vasta, alle Gallerie degli Uffizi nel 2010.

  • 20/28
    Méret Oppenheim

    Berlino 1913 – Basilea 1985

    Autoritratto con tatuaggi

    1980
    Litografia su carta
    Inventario 1890 n. 10145

     

    Nata a Berlino, Méret Oppenheim cresce in Svizzera fin dall’età di un anno, dove la madre si trasferisce non appena il padre, medico, viene richiamato in guerra. Educata in un ambiente culturalmente sofisticato e molto aperto (il suo nome di battesimo, alquanto originale, deriva dal personaggio Meretlein del romanzo Grünen Heinrich dello scrittore, poeta e pittore elvetico Gottfried Keller; la nonna materna, Lisa Wenger, era stata pittrice e autrice di libri per ragazzi; la zia Ruth Wenger era stata sposata con Herman Hesse), Méret, circondata da letterati e artisti, educata in parte sulle teorie teosofiche di Rudolf Steiner, in parte sulla filosofia junghiana, cresce libera e anticonformista e mostra molto presto interesse per l’arte figurativa e la letteratura. A vent’anni, nel 1933, decisa a diventare un'artista, si trasferisce a Parigi. Introdotta da Alberto Giacometti e Hans Arp nel movimento surrealista, Méret ne diviene, in breve tempo, figura centrale. Spesso etichettata quale musa ispiratrice degli artisti surrealisti, Méret in realtà è assai di più: donna realmente anticonformista e sfuggente a qualsiasi rigido inquadramento, che sia di genere o di appartenenza a un unico movimento o ideologia, la Oppenheim è un'artista e creativa multiforme, che si esprime con un linguaggio personalissimo in una miriade di produzioni, spaziando dalla pittura alla fotografia, dal disegno al collage, dai componimenti poetici, al design di arredi e gioielli, fino agli assemblage oggettuali e agli eventi performativi. In questa vasta produzione, la Oppenheim, insiste su ruoli e stereotipi tradizionalmente associati, da uno sguardo sostanzialmente maschile, all’essere donna e al corpo femminile e ne insinua con forza e spiazzante spirito dissacratorio un loro possibile rovesciamento. Fra le opere più celebri realizzate durante il periodo parigino surrealista, vi sono l’assemblage La mia tata, dove un paio di scarpe da donna sono ‘servite’ su un vassoio, “incaprettate” l’una all’altra come cosce di un pollo al forno, e la celeberrima Colazione in pelliccia (1936), opera-manifesto del Surrealismo, composta da una tazza con piattino e cucchiaino, ricoperti di pelle di gazzella cinese, immediatamente acquistata dal Museum of Modern Art di New York. L’opera al di là della sua stravaganza propriamente partecipe della cultura surrealista del tempo, continua tutt’oggi a veicolare con forza un richiamo alla condizione di subalternità del sesso femminile.

    Con altre opere e performance sconcertanti e trasgressive come e più di queste (sono celebri le serie di fotografie a soggetto erotico realizzate da Man Ray), anche a seguito dei difficili anni vissuti durante il periodo nazista e la seconda guerra mondiale, la Oppenheim continua a utilizzare il proprio corpo per riflettere sulla propria condizione di essere umano e di artista. Come era stato già mezzo secolo prima, il suo corpo diviene il foglio su cui raccontare una storia. In questo celebre autoritratto fotografico, replicato in numerose serie a stampa, l’artista, ormai giunta alla fine della sua lunga carriera, anziché nasconderli, enfatizza gli inevitabili segni lasciati sul suo volto dal passare del tempo, connotandoli con linee vivacemente colorate che richiamano tatuaggi tribali. L’artista si offre al nostro sguardo, nella sua età più matura, in veste sacrale di sacerdotessa, che con sguardo magnetico si auto-proietta in una dimensione spazio temporale perenne.

  • 21/28
    Jenny Holzer

    Gallipolis  (USA) 1950

    Living: Some days you wake and immediately….

    1981
    Smalto dipinto su metallo
    Inventario 1890 n. 10577

     

    Quando una donna lascia il segno! È il caso di Jenny Holzer, artista americana pericolosamente “iconoclasta”, nata a Gallipolis (Ohio), il 29 luglio del 1950. Dopo gli studi all’Ohio University di Athens e la Rhode Island School of Design di Providence, nel 1977  l’artista si trasferisce a New York dove vive attualmente. Qui sperimenta un linguaggio artistico che rinuncia all’immagine, al risultato estetico rassicurante, in favore dell’idea “nuda”, spogliata della maschera della forma. Le sue opere sono testi distribuiti in contesti pubblici, messaggi segnici, quasi ipnotici, i così detti truisms (“verità ovvie”), dichiarazioni auto evidenti, frasi breve e affermative che recuperano nella sua opera il loro senso più autentico.

    A partire dal 1977 la Holzer realizza lavori basati sulla scrittura, sperimentando il linguaggio degli slogan, rubato alla pubblicità, per accendere la ragione, viziata dalla coazione a ripetere di un linguaggio troppo spesso stereotipato e svuotato di senso. Ecco che l’arte diventa campanello, avvertimento, capace di scuotere le nostre coscienze per generare un diffuso senso di ansietà che mette in moto il pensiero critico individuale. L’arte ha un valore strumentale, torna ad essere “monito” senza colore, segnale, per porre l’attenzione su temi scomodi come guerra, politica, violenza, morte.

    Dal 1979 inizia a collaborare con il gruppo di artisti Colab, fra cui il celebre writer Jean-Michel Basquiat e condivide con il gruppo il senso di inadeguatezza dei luoghi d’arte di vecchia generazione (musei, gallerie, luoghi classici dell’istituzione) preferendo spazi metropolitani, che parlino della vita fra la gente e i rumori del mondo. Meglio distribuire volantini  per strada, poster in bianco e nero affissi abusivamente per le strade di Soho! E ancora indumenti: cappellini, T-shirt, anche l’abbigliamento diventa manifesto pubblicitario.

    Nel 1990, Jenny Holzer vince il Leone d’Oro alla 44 Biennale di Venezia con dei “truism” scolpiti su lapidi, epitaffi della contemporaneità. Nel 1995, la sua opera si digitalizza sul web, diventando un progetto interattivo incentrato sui suoi “truism” più celebri. Nel 1996 presenta a Firenze una nuova produzione luminescente: opere allo xeno che formano lunghi testi dal forte impatto visivo. Nel 2010 la sua opera sbarca anche in Asia, ad Hong Kong , dove l’artista presenta su LED i suoi slogan politici “PROTECT ME FROM WHAT I WANT".

  • 22/28
    Vanessa Beecroft

    Genova 1969

    Autoritratto, VBSS 03 MP

    2006
    Digital c-print
    Inventario 1890 n. 10578

     

    Una riflessione sul femminile, sempre aperta, è quella di Vanessa Beecroft, nata a Genova nel 1969 da madre italiana e padre britannico.

    Vanessa Beecroft si forma in Italia fra Genova e Milano, seguendo corsi d’arte, scenografia e architettura: una formazione poliedrica che influenzerà la sua visione dell’arte come atto performativo rappresentato in uno spazio scenico, sospeso fra reale e immaginario.

    A partire dagli anni Novanta, la sua forma di espressione privilegiata sarà la performance art, perseguita a livello internazionale. Nasce il così detto “evento” che può realizzarsi in contesti anche più mondani e meno istituzionali, non solo museali. Perché Vanessa Beecroft è una artista capace di mimetizzarsi perfettamente con i codici della contemporaneità. Riesce a sperimentare un linguaggio innovativo che mette materialmente al centro il corpo femminile, stimolando discussioni sociopolitiche sul ruolo della donna nell’arte, suscitando talvolta reazioni critiche sulla percezione del corpo rappresentato con una cifra estetizzante che ne esaspera grazia, magrezza e fragilità.

    Le sue donne incarnano una bellezza sublime, cagionevole e pericolosa. Corpi nudi con i seni esposti , corpi isolati e danzanti, mossi da coreografie ritmate dalla luce. La sua prima performance live si era tenuta a Milano presso la galleria Luciano Inga Pin, durante il Salon Primo dell'Accademia di Belle Arti di Brera, mentre la sua prima personale era stata ospitata nel 1994 alla galleria Fac-Simile a Milano.

    A partire dagli anni Novanta, Vanessa Beecroft è stata una delle prime artiste ad accogliere il linguaggio della moda, collaborando con brand dell’industria del fashion system. Sensibile ad ogni contaminazione artistica ha collaborato anche con il produttore musicale Kanye West.

    Il suo lavoro, vibrante e contemporaneo, mantiene un dialogo aperto con la storia dell'arte, le tradizioni culturali più radicate nella storia della civiltà, tutte declinate al femminile. La fotografia, insieme al disegno, la pittura e la scultura, diventano strumenti ulteriori per approfondire la ricerca sul corpo femminile.

    A partire dalla fine degli anni Novanta, i  più importanti musei al mondo hanno aperto le porte alle performance live di Vanessa Beecroft:  il Guggenheim di New York, il Whitney Museum of American Art,  la Kunsthalle di Vienna. Anche le Gallerie degli Uffizi nel 2017 hanno ospitato uno spettacolare evento con 20 modelle nella sala della Niobe, rappresentando il dramma del corpo femminile, abito perennemente nudo, sempre intimamente scoperto. Desiderabile sempre, infrangibile mai.

    Autoritratto, VBSS 03 MP
    Architettura | Gli Uffizi
    Scheda opera
  • 23/28
    Carla Accardi

    Trapani 1924 – Roma 2014

    Autoritratto

    2009
    Vinilico su tela grezza
    Inventario 1890 n. 10565

     

    L’astrattismo in Italia è anche donna.

    Carla Accardi, all’anagrafe Carolina Accardi, può ritenersi a pieno titolo la signora dell’arte informale in Italia. Siciliana di nascita e romana d’adozione, l’artista nasce a Trapani il 9 ottobre del 1924. Conseguita la maturità classica nella sua città d’origine, si iscrive all’Accademia di Belle Arti di Palermo, per poi trasferirsi a Roma nel 1947, una volta ultimati gli studi. Proprio nella capitale, poco più che ventenne, Carla Accardi entrerà in contatto con tanti giovani artisti emergenti e non. Si davano tutti appuntamento dai “Fratelli Menghi”, un’osteria situata nei pressi di Piazza del Popolo che faceva “credito” a tanti giovani nottambuli e pensatori “assetati d’arte e di vita”. Qui si ritrovavano a ragionare pittori, registi, sceneggiatori, poeti e scrittori come Italo Calvino. La trattoria aveva nutrito, più o meno consapevolmente, “un pezzo dell'arte italiana” tra gli anni '40 e '70 del Novecento. Nel 1947 Carla Accardi, insieme al marito Giovanni Sanfiilippo, Achille Parilli, Pietro Consagra, Giulio Turcato, fonda un circolo d’avanguardia chiamato "Gruppo Forma 1".  Gli aderenti al gruppo si definivano pittori "formalisti e marxisti”, in quanto legati ad una nuova concezione della forma: un puro “segno”, scevro di ogni connotazione simbolica o psicologica.

    La ricerca di Carla Accardi si svilupperà sempre più in direzione autonoma, tanto che nel 1950 terrà la sua prima personale a Roma, maturando una forma indipendente di astrattismo, legato a tre fattori “segno-colore-luce”, valori capaci  di generare una pittura informale dotata di impressionanti effetti ottico-percettivi , ottenuti mediante l’accostamento di colori vividi e brillanti. Tra Roma, Milano e Parigi, Carla Accardi si confronterà con numerose personalità del panorama artistico internazionale.

    Nel 1965 l'artista sperimenterà nuove tecniche, abbandonando l’uso delle tempere, a favore di vernici colorate e fluorescenti da applicare su supporti plastici trasparenti, proponendo nuove soluzioni spaziali che influenzeranno gli esponenti dell'Arte povera nascente. Ma Carla Accardi fu anche una voce del femminismo in Italia; insieme a Elvira Banotti e Carla Lonzi, aveva costituito nel 1970 il gruppo "Rivolta Femminile", un manifesto per la rivendicazione dei diritti della donne nell’Italia retrograda degli anni '70. Negli anni ‘80 la sua ricerca artistica preferirà soluzioni pittoriche più geometriche.

    Negli anni '90 arriveranno invece i conferimenti più istituzionali: la nomina come membro dell'Accademia di Brera nel 1996 e il ruolo di consigliere della Commissione per la Biennale di Venezia nell’anno successivo. Una retrospettiva su Carla Accardi verrà presentata a Trapani, sua città natale, nel 1998 nella Chiesa della Badia Grande. L’artista, colta da un malore, morirà a Roma il 23 febbraio del 2014.

    Autoritratto
    Architettura | Gli Uffizi
    Scheda opera
  • 24/28
    Lynne Curran

    Newcastle (UK) 1954

    Autoritratto

    2013
    Seta, lino, lana e cotone
    Inv.1890 n. 10581

     

    Lynne Curran è un’artista inglese, formatasi negli anni '70, specializzata nell’arte dell’arazzo. Da molti anni risiede in Toscana, dove ha fondato una scuola internazionale per lo studio di quest’arte. Il suo lavoro punta a mettere in dialogo le tecniche tradizionali della tessitura con una visione iconografica contemporanea. I suoi tessuti esprimono, attraverso immagini stilizzate ed essenziali, una visione onirica della realtà.

    L’artista collabora con diverse importanti istituzioni: già nel 1984, il Victoria and Albert Museum di Londra la invita a realizzare un’opera originale per il museo, La Dame aux Belles Plumes, acquistando anche gli schizzi ad acquerello all’origine di questo lavoro. Allo stesso modo, nel 2010, Lynne Curran esegue un piccolo arazzo per gli Uffizi, l’unico autoritratto tessuto della collezione.

    Per la realizzazione dell’opera, Lynne Curran si ispira alle iconografie degli autoritratti esposti nel Corridoio Vasariano. L’artista nota che in molti di essi gli autori si rappresentano accompagnati dai loro strumenti di pittori. Lynne decide, per questo motivo, di ritrarsi con un cesto di filati invece di una tavolozza e con un rocchetto invece di un pennello. L'artista si rappresenta seduta in uno spazio astratto, con in grembo, accolto come un figlio, un cesto, contenente aghi, forbici, e gomitoli di vari colori.

    La mano destra sorregge un ago legato ad un filo rosso che forma spirali, le stesse che ritroviamo nel cestino e nel suo abito. L’artista si mostra nell’atto della creazione, con quello stesso filo con cui cuce i suoi arazzi, cuce anche il suo vestito, manifestando così una forte identificazione di se stessa con le sue opere.

    Il piccolo arazzo è circoscritto da una cornice, realizzata dal marito scultore David Swift, dipinta e a forma di bauletto con due piccole ante, che una volta chiuse, sono in grado di contenere l’opera. Il cofanetto diviene metafora d’intimità, in quanto si trasforma in una protezione fisica ed affettiva, dando la possibilità di celare l’autoritratto ad occhi indiscreti. Al tempo stesso, le due ante richiudibili richiamano la fattura degli altaroli devozionali di epoca medievale e ammiccano alla sacralità della figura dell’artista, rappresentata all’interno.

    L’opera è stata donata dall’artista alle Gallerie degli Uffizi nel 2010, in occasione della mostra Autoritratte. Artiste di capriccioso e destrissimo ingegno curata da Giovanna Giusti.

  • 25/28
    Berlinde de Bruyckere

    Gand 1964

    Autoritratto

    2010
    Cera, resina, legno e vetro
    Inventario 1914 n. 1783

     

    Berlinde De Bruyckere è nata a Gand, in Belgio, dove tutt’oggi vive e lavora. La sua produzione scultorea, avviata nei primi anni Novanta del XX secolo e giunta alla ribalta internazionale alla Biennale di Venezia del 2003, verte quasi ossessivamente sul corpo, umano o animale, utilizzato in installazioni spesso perturbanti, progettate dall’artista per accendere stati d’animo di pietà e amore, o al contrario di disgusto e terrore, e per attivare riflessioni sulla fragilità della condizione umana e sull’ineluttabile destino di morte di qualsiasi essere vivente.

    Nella sua opera, esperienze e ricordi di vissuto personale e quotidiano (la macelleria del padre nella quale, bambina, Berlinde vedeva carcasse e pezzi di carne in lavorazione; l’educazione rigidamente cattolica ricevuta in un convento di suore; memorie di corpi di cavalli abbandonati in fotografie della prima guerra mondiale…) si mischiano e stratificano con svariate influenze letterarie e artistiche. Senza dubbio è forte l’influsso esercitato dalla cultura della sua terra d’origine, aperta alle suggestioni del fantastico e dell’inconscio, lungo una linea immaginaria che da Hieronymous Bosch conduce, in epoca moderna, al surrealismo di Paul Delvaux. Tradizionalmente la cultura fiamminga è richiamata dall’attenzione al dettaglio, che porta la Bruyckere a lavorare a lungo, con paziente e quasi maniacale precisione, le sue sculture, per rendere come dal vero ogni più piccolo particolare. La scelta dei materiali cade su quelli di origine naturale, selezionati per la loro precipua malleabilità e tattilità (la cera, la pelle di animali, i tessuti quali lana e velluto).

    I corpi protagonisti delle sue sculture si presentano svuotati in tutto o in parte della loro matericità carnale. Oppure, come in una moderna metamorfosi ovidiana, i corpi, umani e animali, si rigenerano combinandosi o trasformandosi in elementi naturali. O ancora, inerti e abbandonati, si presentano in pose incongrue, privi di connotazioni fisiognomiche e sessuali eppure così vivi e perturbanti. In certe installazioni, il corpo è solo memoria e dunque richiamato nella sua assenza, nella forma lasciata entro una coperta o altro tessuto, o da pelli squartate, ossa ripulite, lacerti che lasciano intravedere, in grumi e ammassi, quanto sta dietro, o dentro ciascun essere vivente: l’anima pulsante di ogni cosa vivente, che persiste, nonostante il trauma o la violenza che ha subito.

    In questo toccante autoritratto, la Bruyckere si presenta sotto una campana di vetro, a mo’ di sacra reliquia, a sottolineare la necessità di protezione che questa donna sembra domandare: con la puntuale resa anatomica della pelle livida, macchiata da schizzi di vernice rosso vivo, e con l’alternanza di pieni e di vuoti che compongono questo busto stropicciato e teso, l’artista rende concreta la propria tensione emotiva e ci trasmette un senso di disagio e vulnerabilità, nel quale empaticamente siamo portati a immedesimarci.

    La scultura è stata donata dall’Artista alle Gallerie degli Uffizi nel 2010, in occasione della mostra Autoritratte. Artiste di capriccioso e destrissimo ingegno.

  • 26/28
    Yayoi Kusama

    Matsumoto 1929

    Autoritratto

    2010
    Acrilico su tela
    Inventario 1890 n. 10563

     

    Yayoi Kusama nasce a Matsumoto, nella provincia di Nagano, in Giappone nel 1929. Fin da giovanissima, mostra indole anticonformista e fortemente determinata. In opposizione alla famiglia, che avrebbe desiderato per lei un futuro nel solco della più conservatrice tradizione giapponese, Yayoi decide di studiare pittura. Diplomatasi all’Accademia di Belle Arti di Tokyo, tiene la sua prima personale nel 1952 nella sua città natale. Soffre fin da bambina di disturbi psichici che le causano visioni distorte e allucinazioni, sature dei ‘puntini’ che saranno la cifra stilistica onnipresente e immediatamente riconoscibile di tutta la sua ampissima produzione artistica.

    L’invito alla 18ma Biennale dell’acquerello di New York le offre l’opportunità di fuggire dalle costrizioni familiari e del suo paese d’origine e di confrontarsi con il centro assoluto della creatività e dell’arte contemporanea dell’epoca. A New York, dove si stabilisce stabilmente dal 1959, Yayoi esperirà tutti i modi possibili per esprimere la sua potenza creativa finalmente liberata e sarà capace di realizzare la non facile sfida di conquistare un suo spazio, autonomo e originale, partendo da una condizione eccezionale: è donna, giapponese, in un mondo dominato da artisti uomini e di razza bianca. I pois, circoscritti nei dipinti e nei disegni dei primi anni giapponesi al ristretto campo del quadro o del foglio, si riversano sul cavalletto e sui muri; proliferano ovunque e ricoprono poltrone, divani, scale e molti altri objet trouvé new dadaisti. Dal 1966, l’ossessione da horror vacui di questa proliferante estetica del pixel diventa happening. Yayoi è protagonista di colorati e psichedelici ambienti abitabili, saturi di morbide e gommose protuberanze fitomorfiche e falloidi, ricoperte degli immancabili pallini; sperimenta la body art; partecipa a campagne antimilitariste e di liberazione sessuale, in pieno clima hyppie e sessantottino.

    Dal 1973 rientra definitivamente in Giappone. La pratica performativa evolve nei decenni successivi nella progettazione di ambienti dove la combinazione fra rifrazioni di luci specchiate e rimandi ipnotici di colori, in dialogo con il mondo dei videogiochi e i progressi della cultura digitale, si fa sempre più sofisticata: per giungere, dai primi anni Novanta, alle Infinity Mirror Rooms. In queste stanze, grazie a una tecnologia tutto sommato semplice, basata sull’allestimento di luci LED in sequenza, specchi e acqua, ma programmata con estrema accuratezza, lo spettatore perde realmente il senso della estensione spazio-temporale reale ed è proiettato verso una dimensione potenzialmente infinita.

    Indomita e superiore a qualsiasi canonica categorizzazione, Yayoi si presenta anche in questo autoritratto. Ipnotica e colorata come un fumetto manga, l’artista ancora una volta torna a giocare con i suoi puntini e con la griglia reticolare: una forma, come lei stessa dichiara, che “ho iniziato fin da bambina […] Mi divertivo anche a frantumare vetri, specchi e piatti con un martello” (cit. in F. Fabbri, Lo zen e il manga. Arte contemporanea giapponese, Milano 2009, p. 36). Ancora una volta, l’esercizio della pratica artistica diventa via efficace per esorcizzare le proprie ossessioni, e ritrovare, grazie a una personalissima libertà espressiva, il proprio ordine interiore.

    L’opera è stata donata dall’Artista alle Gallerie degli Uffizi nel 2010 in occasione della presentazione in Giappone delle collezioni di autoritratti degli Uffizi (Tokyo-Osaka 2010), insieme a altri due autoritratti di artisti giapponesi, Tadanori Yokoo (Dreaming Me, inv. 1890 n. 10562) e Hiroshi Sugimoto (Visione universale distorta, inv. 1890 n. 10559).

  • 27/28
    Patti Smith (Patricia Lee Smith)

    Chicago 1946

    Autoritratto

    New York 2003/2005
    New York 2001/2003

    Stampe alla gelatina d’argento
    Inventario 1890 nn. 10571, 10570

     

    Patti Smith nasce il 30 dicembre 1946 a Chicago, figlia di Beverly, cameriera e cantante jazz, e Grant, operaio. Nel 1967 si trasferisce a New York, centro, in quegli anni, di una rivoluzione culturale che in un decennio cambiò la musica, la letteratura, i costumi e il comportamento sessuale. Qui Patti conosce Robert Mapplethorpe, destinato a diventare uno dei più grandi fotografi americani del Novecento, e stringe con lui un forte legame personale e artistico, determinante nella sua vita. I due vivono da bohémien, cambiando continuamente amicizie e abitazione, crescendo insieme nella vita e nell’arte al Chelsea Hotel, storica residenza newyorkese di scrittori, musicisti, attori e artisti. Patti si guadagna da vivere come commessa in una libreria, inizia a recitare, scrive poesie e una commedia, anima reading musicali. Scrive canzoni. Il suo nome comincia a diventare uno dei più noti del circuito “underground”. Nel novembre 1975 esce il suo album di debutto ‘Horses’, che consacra il suo successo, facendola diventare musa ispiratrice di numerosi e influenti artisti della scena rock.

    All’apice della fama, amica di Allen Ginsberg, William Burroughs, Bob Dylan, Sam Shepherd... acclamata come poetessa anche in Europa, dopo un epocale concerto allo stadio di Firenze nel settembre 1979, Patti si ritira dalle scene per sposarsi, avere bambini e tornare alla poesia. Nel 1988, dopo dieci anni di silenzio discografico e di assenza dal palco, avviene l’inaspettato ritorno con l’album ‘Dream of Life’, contenente la celebre hit “People have the power”.

    Seguono anni per lei segnati da una serie di dolorosi lutti: il compagno di gioventù Robert Mapperthorpe, il fidato pianista Richard Sohl, il fratello Todd, il marito Fred Smith. Sono anni duri e sofferti. L’artista col tempo riesce a reagire e a rialzarsi, riprendendo con tenacia la sua poliedrica vita d’artista.

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    Patti Smith (Patricia Lee Smith)

    Chicago 1946

    Autoritratto

    Alexandria, Egypt 2009
    Charléville 2004

    Stampe alla gelatina d’argento
    Inventario 1890 nn. 10573, 10572

     

    Patti Smith ha incarnato una delle figure femminili più dirompenti della storia del rock, sempre pronta al rifiuto delle etichette: la sua voce cruda e rabbiosa ha cantato la libertà, i dolori, le guerre e le frustrazioni di una generazione, rendendo la musica un potente strumento di comunicazione alle masse. Ha dedicato la sua vita ad impegnarsi nell’arte, abbattendone i confini e muovendosi abilmente e con successo tra una disciplina e l’altra.

    La fotografia è stata una delle sue grandi passioni. Fin da giovanissima Patti restò affascinata dall’immediatezza degli scatti eseguiti con la Polaroid, con cui realizzava collages.

    «Con le Polaroid ho cominciato seriamente dopo la morte di mio marito. Era il 1995, in quel momento mi sono sentita così sconvolta. Non riuscivo a concentrarmi né sul disegno né sulla scrittura. La Polaroid funziona in modo semplice e diretto, mi ha dato quello che mi serviva in quel momento per le mie esigenze creative».

    In questi quattro scatti in bianco e nero, realizzati in tempi e luoghi differenti, l’artista cattura immagini di sé nell’immediatezza del presente: nello stesso modo in cui canta - in maniera impulsiva senza seguire le note dello spartito - Patti si pone dinanzi all’obiettivo senza premeditazione, senza impostazione. Ci offre la sua anima, nuda, scarna, sincera, e chi guarda ha la sensazione di accedere senza filtri alla dimensione intima e privata dell’artista. ‘I am not a photographer, yet taking pictures has given me a sense of unity and personal satisfaction. They are relics of my life. Souvenirs of my wandering’.

    Nel 2012, dopo l'ingresso dell'autoritratto di Robert Mapplethorpe, anche le foto di Patti Smith sono entrate a far parte della prestigiosa collezione degli Uffizi.

Artiste agli Uffizi

Autoritratti di donne nelle collezioni delle Gallerie

Crediti

Progetto e coordinamento: Francesca Sborgi con l’Area Strategie Digitali

Testi: Valeria Contarino (nn. 15, 19), Sofia Giorgi (nn. 12, 13), Elena Marconi (nn. 3, 6, 7, 8, 9), Patrizia Naldini (nn. 4, 5, 17, 18, 27, 28), Francesca Sborgi (nn. 20, 24, 25, 26), Cristian Spadoni (nn. 21, 22, 23), Chiara Toti (n. 14), Chiara Ulivi (nn. 10, 11, 16)

Editing web: Andrea Biotti

Revisione testi: Patrizia Naldini, Chiara Ulivi

Traduzioni: Way2Global srl.

Crediti fotografici: Andrea Biotti, Francesco del Vecchio, Roberto Palermo

Data di pubblicazione: 8 marzo 2022

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