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Santa Maria Maddalena

Tiziano Vecellio (Pieve di Cadore 1488/90 – Venezia 1576)

Data
1531-1535
Collocazione
Sala di Apollo
Tecnica
Olio su tavola
Dimensioni
85,8 x 69,5 cm
Inventario
Inv. 1912 n. 67
Iscrizioni

“TITIANUS” sul profilo dell’imboccatura del vasetto in basso a sinistra

Restauri

L’opera raffigura il soggetto della Maddalena penitente che fu quello più spesso replicato da Tiziano durante la sua lunga attività artistica, secondo un’iconografia destinata ad aver larga fortuna per l’inconsueto e audace fascino erotico che prorompe dal nudo femminile della santa in atto di rivolgere con devozione gli occhi al cielo. La Maddalena che Tiziano ci presenta è la prostituta pentita, la donna dal passato dissoluto che, recatasi, secondo il racconto evangelico (Luca 7, 36-50), nella casa di Simone il fariseo per chiedere perdono a Gesù, versa lacrime di pentimento sui piedi del Redentore, asciugandoli poi con i lunghi capelli e profumandoli con l’unguento prezioso, racchiuso nel vasetto su cui il pittore appone la propria firma. E’ una figura satura di femminilità, che Tiziano descrive con una pennellata densa e pastosa dalle tonalità calde, evidenziando gli occhi intrisi da lacrime cristalline e il meraviglioso manto di capelli biondo ramati sparsi a coprire la nudità dei seni palpitanti – è nuda perché risoluta a spogliarsi di tutto il suo passato. Per quest’immagine in cui persistono ambiguamente l’idea della peccatrice e della penitente, il pittore potrebbe aver fatto posare qualche cortigiana veneziana, come molte ve ne furono nel Cinquecento che, pentitesi e convertite, poterono prendere a modello di redenzione il dipinto tizianesco che ebbe gran fortuna e fu ampiamente replicato dal maestro e dalla sua bottega.

Questa versione della Galleria Palatina, per la stupefacente qualità della pittura, potrebbe essere uno dei prototipi più antichi ed è probabile che sia stata dipinta da Tiziano a Venezia fra il 1533 e il 1535, su commissione di Francesco Maria della Rovere duca d’Urbino. La più antica citazione dell’opera risale a Giorgio Vasari che nel 1548 durante una sua visita alla corte di Urbino la descriveva presso la collezione del duca Guidubaldo della Rovere, annotandola come “cosa rara”. Pervenne poi a Firenze con l’eredità di Vittoria della Rovere nel 1631.

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