Salomè
Alonso Berruguete (Paredes de Nava 1488 ca - Toledo 1561)
La decollazione del Battista costituisce un soggetto ampiamente frequentato fin dal Medioevo che trova un’improvvisa accelerata nell’arte italiana di primo Cinquecento e in particolare in area settentrionale. Rispetto ad altre declinazioni più narrative, come ad esempio quella di Bernardino Luini in una tavola sempre delle collezioni degli Uffizi (vedi scheda opera), l’attenzione è qui concentrata interamente sulla figura di Salomè, isolata su un fondo scuro, e sulla testa del Battista deposta sul vassoio. La sottolineatura della presa incerta così come l’evidenza dello sguardo rivolto verso il basso e allontanato quasi per repulsione, suggeriscono un’interpretazione “pudica” della figlia di Erodiade che deriva dalla sua richiesta, su cui insistono entrambi i passi evangelici di Marco (Mc 6, 14-29) e Matteo (Mt 14, 1-12), di avere la testa di Giovanni il Battista sopra un vassoio. Una lettura che le attribuisce una sensibilità del tutto estranea, anche per differenza di età, alla malvagia madre e che qui sembra quasi trovare estensione nell’arioso paesaggio dello sfondo, contraddistinto da un’originale caratterizzazione nordica e dal taglio scivolato in direzione opposta rispetto all’inclinazione del vassoio e della balaustra-corrimano. La possente testa del Battista che presenta una forte caratterizzazione fisiognomica e dimensioni superiori al naturale, potrebbero invece alludere al ruolo di Precursore evidenziato sia da Marco sia da Matteo nell’incipit del racconto del martirio dove Erode a fronte della crescente fama di Gesù e visti i suoi poteri taumaturgici, afferma che egli sia il Battista «risorto da morte» (Mt 14, 1-3).
La tavola è più volte citata negli inventari medicei che ne documentano gli spostamenti tra le collezioni e il mutare delle attribuzioni. Registrata già presso il Casino di San Marco nell’eredità di Carlo de’ Medici con il titolo ‘Erodiade’ e una prima attribuzione a Giovan Francesco Penni (1666), passa poi agli Uffizi (1667) e qui acquista il riferimento a Pontormo (1704). Trasferita a Pitti nella seconda metà del Settecento (1761), ritorna poi agli Uffizi con l’attribuzione a Federico Barocci (1795). Una girandola di attribuzioni alla quale mette temporaneamente freno Roberto Longhi che nei primi anni Cinquanta del Novecento avanza il nome del pittore spagnolo Alonso Berruguete, circoscrivendo l’esecuzione del dipinto al 1514 circa entro il cruciale periodo fiorentino avviatosi nel 1508, ma anticipato e inframmezzato (nel 1510) da esperienze romane. I modi del dipinto risentono infatti di suggestioni rielaborate sulla scorta degli esempi dei maestri di cui Berruguete si nutre in quegli anni, ricercandone la visione dal vivo; modi che rimandano al Raffaello del Parnaso delle Stanze Vaticane e al Michelangelo della volta Sistina, contaminati insieme in modo originale con quella «libertà di accozzo» attribuita da Longhi a chi, come appunto gli artisti provenienti dalla Spagna, non aveva remore ad attingere al repertorio dell’arte italiana.