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Guarigioni miracolose

  • Guarigioni miracolose

    Malattia e intervento divino. L'arte interpreta il miracolo in opere dal Tre al Novecento

    Guarigioni miracolose
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    Intro /1

    Un ampio settore degli studi di storia dell’arte ha indagato, e continua tutt’oggi a indagare, la forza dirompente delle immagini sacre, che si affermò in maniera particolare a cominciare dai secoli XII-XIV. È noto a tutti il ruolo fondamentale dell’arte nel promuovere la fede cristiana nelle popolazioni di vaste aree dell’Europa di quel tempo. Tuttavia, per la nostra percezione odierna, forse interessa soprattutto l’impatto emotivo diretto esercitato sui singoli individui dalle diverse forme artistiche. Un impatto fortissimo, che influenzò anche le modalità della pratica devozionale quotidiana, paragonabile - fatte le debite proporzioni - all’influenza dei social media. All’interno di questo universo di straordinaria suggestione per il pubblico dell’epoca, fatto di statue e dipinti che parlano, versano lacrime o gocce di sangue, prendono vita e interagiscono con lo spettatore, un posto del tutto particolare è occupato dalla raffigurazione delle guarigioni. Le guarigioni di difetti fisici o di terribili malattie, operate in primo luogo da Cristo, dalla Vergine e dagli Apostoli e poi da una schiera innumerevole di santi e beati: da san Pietro che guarisce gli infermi con la sua ombra (Atti degli Apostoli  V, 12-14) - “documentato” per sempre da Masaccio sulle pareti della Cappella Brancacci in Santa Maria del Carmine a Firenze - alla guarigione “inspiegabile” nel 2011 della costaricana Floribeth Mora Díaz che ha condotto alla canonizzazione di Papa Giovanni Paolo II. 

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    Intro /2

    La maggior parte delle innumerevoli tipologie iconografiche delle guarigioni miracolose che si sono succedute nei secoli prevede un gesto solenne o un’intimazione perentoria - sono nella mente e perfino nel linguaggio di tutti le parole di Gesù «Lazzaro, vieni fuori!» (Gv. 11, 43) - , ma personalmente ho sempre ammirato di più le guarigioni in tono dimesso. Ad esempio, quella operata in totale riservatezza da san Francesco su Bartolomeo da Narni, che aveva una gamba paralizzata da molti anni: Giunta di Capitino, nella scena della pala cuspidata del Museo nazionale di San Matteo a Pisa, proveniente dalla locale chiesa di San Francesco, e altri pittori duecenteschi raffigurano il Serafico mentre sostiene la gamba dell’uomo e la sfiora con uno sguardo e un atteggiamento più da medico che da santo guaritore! Un atteggiamento che sembra prefigurare quello analogo e davvero competente dei due santi medici Cosma e Damiano, mentre sostituiscono la gamba incancrenita del diacono Giustiniano della chiesa romana a loro intitolata, con quella tolta all’etiope seppellito nella giornata appena trascorsa nel cimitero di San Pietro in Vincoli. Nello scomparto della predella della pala di San Marco dell’omonimo museo fiorentino, il Beato Angelico nella raffigurazione di questo miracolo ci offre uno dei brani più alti della pittura fiorentina del Quattrocento: in un ambiente dove si realizza una sintesi altissima fra la più pura poesia pittorica del Rinascimento italiano e l’acutissima visione realistica dei fiamminghi, i due medici sembrano davvero chini su un tavolo operatorio.

    Meno ‘laico’ e ben più spirituale appare il gesto benedicente della Beata Umiltà nella scena dell’omonimo polittico degli Uffizi dipinto da Pietro Lorenzetti intorno al 1335, mediante il quale essa risana la gamba del monaco vallombrosano che ne aveva rifiutato l’amputazione.

    Il dipinto inaugura la variegata selezione delle opere del più celebre museo italiano raffiguranti il tema delle guarigione miracolosa, dove i due santi medici ricompaiono alla ribalta - e con pieno merito occorre dire -, anche come protettori dei Signori di Firenze, in una delle opere più belle del giovane Botticelli quale la pala di Sant’Ambrogio.

    E se accenti di maggiore teatralità sembrano informare altre creazioni (il disegno di Francois Xavier Fabre; le tele del Bonatti e di Livio Mehus), una guarigione senza dubbio più intima e quasi commovente, ancora una volta più da medico che da santo guaritore - appare quella operata da san Filippo Neri a beneficio di Papa Clemente VIII nella tela di Pietro da Cortona. Come annullare, infine, il pensiero che dal sapere scientifico dei medici di ogni angolo del mondo miliardi di persone stanno aspettando oggi la guarigione miracolosa più importante di questa nostra epoca…un sapere che è a sua volta uno dei miracoli più belli di Nostro Signore. Nell’attesa, a noi non resta che l’auspicio che tutti gli artisti possano celebrare in un futuro ormai prossimo anche questa guarigione.

    Angelo Tartuferi

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    Pietro Lorenzetti

    Santa Umiltà e storie della sua vita

    1335-40
    Tempera su tavola
    Uffizi, Galleria delle Statue e delle Pitture, sala 3
    Inv. 1890 no. 8347, 6120-6126, 6129-6131


    Santa Umiltà da Faenza, al secolo Rosanese Negusanti (Faenza 1226 – Firenze 1310), discendeva da una illustre casata di Faenza. Maritata con Ugolotto de’ Caccianemici, dopo vari anni di matrimonio scelse di abbracciare la vita religiosa, convincendo anche il marito a prendere i voti. Eventi miracolosi di cui fu protagonista, la resero famosa per santità fra i suoi conterranei. Dopo aver ricevuto un’apparizione di san Giovanni evangelista, si trasferì con alcune consorelle a Firenze, dove nel 1282 fondò il primo monastero femminile vallombrosano della città, intitolato all’apostolo, e dove dispensò altri miracoli. Dopo la morte, le sue spoglie, traslate nel 1311 in un apposito sepolcro nella chiesa del monastero di San Giovanni Evangelista, divennero oggetto di venerazione. La pala d’altare dipinta da Pietro Lorenzetti sormontava probabilmente l’altare dedicato alla beata e costituisce la più antica effigie di Umiltà oggi nota. La monaca ha la testa circondata dal nimbo, emblema di santità, nonostante che Umiltà sia stata beatificata solo nel 1720. Vestita con l’abito dell’ordine benedettino vallombrosano, ha la testa coperta da una pelle d’agnello - il melote - sua peculiare caratteristica.

    Il polittico, privo di alcuni pannelli e della cornice, ha la struttura tipica della pala agiografica, con la santa raffigurata a figura intera al centro, contornata da riquadri con gli episodi più salienti della sua vita. Questa tipologia, derivata da modelli dell’oriente cristiano, ebbe notevole sviluppo in Italia fra il XIII e il XV secolo. Spesso realizzate per essere poste in prossimità delle reliquie del santo raffigurato, queste immagini acquistavano la stessa sacralità delle reliquie e, di conseguenza, gli stessi poteri taumaturgici ad esse riferite. Vi sono spesso riprodotti miracoli con guarigioni e resurrezioni che richiamavano i devoti e incentivavano le elemosine e le donazioni, necessarie al sostentamento delle chiese e dei monasteri.

    Beata Umiltà e storie della sua vita
    Architettura | Gli Uffizi
    Scheda opera
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    Pietro Lorenzetti

    Santa Umiltà e storie della sua vita

    Il monaco vallombrosano rifiuta di farsi amputare la gamba malata

    La scena illustra il miracolo che dette notorietà a Umiltà quando ancora si trovava a Faenza ed era alla ricerca di una forma di reclusione volontaria che le consentisse di praticare al meglio l’ascesi e la preghiera.

    L’episodio è narrato nella biografia della santa tramandata da fonti manoscritte del XIV secolo. Un monaco vallombrosano del monastero di Sant’Apollinare a Faenza era infermo a causa di una gamba che si era infettata così gravemente da indurre i medici a suggerire l’amputazione dell’arto, unico rimedio per scongiurare la sepsi che avrebbe inevitabilmente provocato la morte dell’uomo. La scena mostra il monaco infermo disteso a letto, sofferente e afflitto, con la gamba ancora scoperta al termine della visita medica. Il dottore è raffigurato mentre, con la bocca socchiusa e la mano destra alzata, enuncia la diagnosi e prospetta l’unica, terribile  soluzione. L’elevato ceto sociale e il prestigio del luminare sono manifesti nella solenne veste dottorale, con cappa di ermellino e copricapo foderato di pelliccia. Un simile abbigliamento connotava i docenti e in generale i dotti, categoria della quale i medici facevano parte svolgendo quasi esclusivamente attività speculativa e diagnostica. La cura materiale dei malati era poi affidata nei fatti a chirurghi e speziali.

    L’agiatezza che contraddistingue l’aspetto del medico contrasta con la semplicità della cella monastica, arredata solo dal letto e da alcune cassapanche di legno grezzo, senza ornamenti. Un chiostro, da cui spunta un albero, separa il dormitorio dalla chiesa del monastero di Sant’Apollinare che si staglia sul fondo col suo campanile.

    Il pannello, fino al restauro eseguito nel 1841 da Francesco Acciai, aveva forma rettangolare e  trovava posto fra le scene di sinistra del polittico, subito prima di quella con la guarigione del monaco, che completa la narrazione dell’episodio.

    Beata Umiltà e storie della sua vita
    Architettura | Gli Uffizi
    Scheda opera
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    Pietro Lorenzetti

    Santa Umiltà e storie della sua vita

    Santa Umiltà guarisce la gamba malata del monaco

    Condannato a subire l’amputazione di una gamba infettata per arginare il progredire della malattia, un monaco vallombrosano del monastero faentino di Sant’Apollinare si fa portare dai suoi confratelli al cospetto della beata Umiltà. La donna, dopo aver trascorso alcuni anni nel monastero di Santa Perpetua, aveva deciso di vivere come gli eremiti nel deserto, in solitudine e conducendo vita ascetica in preghiera. Era stata così accolta in casa da suo zio Niccolò, presso il quale viveva reclusa volontariamente in una cella.

    La scena è ambientata sulla porta della casa dello zio, immaginata come un palazzotto signorile. La santa, con in mano il breviario impiegato per le preghiere, impartisce la benedizione al monaco vallombrosano, adagiato sulla lettiga trasportata dai suoi confratelli e con in vista la gamba malata. Alcune fonti agiografiche raccontano di come la santa si fosse inizialmente schernita di fronte alla richiesta di aiuto, finendo poi per accettare mossa da un sentimento di carità verso il monaco implorante, raffigurato nel dipinto a mani giunte. La santa avrebbe quindi tracciato più volte il segno della croce sull’arto malato, che sarebbe immediatamente guarito. In seguito al miracolo, manifestazione inequivocabile della santità della donna, Umiltà si ritirò in una cella appositamente costruita per lei presso il monastero di Sant’Apollinare, accostandosi all’ordine vallombrosano. Il risalto dato a questo episodio nel polittico di Pietro Lorenzetti, l’unico miracolo narrato in due scene, esalta i poteri taumaturgici della santa, più forti della scienza del dottorone, a dimostrare l’impossibilità della guarigione del corpo senza la guarigione dell’anima, principio basilare della medicina medievale.

    Beata Umiltà e storie della sua vita
    Architettura | Gli Uffizi
    Scheda opera
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    Sandro Botticelli

    Madonna col Bambino in trono fra i santi Maria Maddalena, Giovanni Battista, Francesco, Caterina d’Alessandria, Cosma e Damiano

    1470 c.
    Tempera su tavola
    Gallerie degli Uffizi, Galleria delle Statue e delle Pitture, sala 10-14, Inv. 1890 no. 8657

     

    Fra i numerosi santi raccolti in sacra conversazione attorno alla Madonna con Gesù bambino,  spiccano in primo piano i fratelli martiri Cosma e Damiano, raffigurati in ginocchio davanti al trono e identificati dal nome scritto in basso, in lettere capitali. Vissuti nei territori sudorientali dell’impero romano nel III secolo e martirizzati sotto l’imperatore Diocleziano, i due santi sono tradizionalmente rappresentati in coppia e vestiti con la toga rossa che li denota come personaggi eminenti e di rango, nello specifico medici. La toga rossa era abbinata ad un copricapo dello stesso colore, il tocco, che nel dipinto di Sandro Botticelli san Cosma stringe al petto. Sono invece qui assenti gli utensili attinenti alla professione medica, come vasi per unguenti e strumenti chirurgici, che non di rado caratterizzano l’iconografia dei due martiri.

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    Sandro Botticelli

    Madonna col Bambino in trono fra i santi Maria Maddalena, Giovanni Battista, Francesco, Caterina d’Alessandria, Cosma e Damiano

    “Istruiti nell’arte medica, ricevettero tanto potere dallo Spirito Santo che riuscivano a guarire tutte le malattie degli uomini e degli animali, ma non volevano mai essere pagati dei loro servigi”. Così narra la Legenda Aurea, una raccolta delle vite dei santi composta nel XIII secolo, che, oltre a sottolineare la carità cristiana dei due fratelli, interpreta il buon esito delle cure somministrate come manifestazione della volontà divina. La capacità di guarire i malati era perciò anche uno strumento efficacissimo di apostolato. L’abilità nella professione dette fama a Cosma e Damiano che, convocati dalle autorità romane, si dichiararono cristiani, rifiutando di adorare gli idoli. Condannati a morte, sfuggirono prodigiosamente a vari tentativi di uccisione, fino a quando non vennero decapitati. In virtù dell’attività svolta, i santi Cosma e Damiano sono stati spesso considerati fin dal Medioevo protettori di dottori, chirurghi e farmacisti.

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    Beato Angelico

    I santi Cosma e Damiano guariscono il diacono Giustiniano

    1438-1442 c.
    Tempera su tavola
    Firenze, Museo di San Marco, Inv. 1890 no. 8495

     

    Il dipinto illustra un miracolo compiuto dai santi medici Cosma e Damiano dopo il loro martirio, avvenuto intorno al 303. All’inizio del VI secolo, papa Felice IV aveva fatto edificare a Roma una basilica in onore dei due fratelli martiri, ancora oggi esistente. Si narra che il guardiano della chiesa, il diacono Giustiniano, avesse una gamba molto malata. Una notte sognò i santi Cosma e Damiano che con i loro strumenti, un coltello e alcuni unguenti, si recavano nel cimitero di San Pietro in Vincoli per trovare una gamba sana da trapiantare a Giustiniano al posto di quella malata. La scena illustra i due santi che attaccano la nuova gamba, mentre Giustiniano dorme. Poiché il cadavere da cui era stata presa la gamba sana era quello di un etiope, il nuovo arto ha la pelle scura, caratteristica che rende visivamente evidente il prodigio compiuto. Al risveglio, Giustiniano si trovò guarito della sua infermità e il miracolo contribuì ad acuire la fama dei due santi medici. L’eccezionale evento, narrato nella Legenda aurea (sec. XIII), restituisce dignità alla chirurgia, arte guardata con sospetto e disgusto per gran parte del Medioevo, praticata da cerusici e barbieri. Nel corso del Rinascimento, la riscoperta dei trattati di medicina greci e latini e l’affermazione dell’anatomia come disciplina scientifica posero le basi per l’avanzamento della professione medica e chirurgica. Il dipinto concludeva la narrazione della vita dei santi Cosma e Damiano illustrata dal Beato Angelico nella predella della pala dell’altare maggiore della Basilica di San Marco a Firenze, commissionata da Cosimo il Vecchio e da suo fratello Lorenzo de’ Medici. I due santi medici, in virtù dell’assonanza fra la loro professione e il cognome della casata, erano stati scelti come santi protettori dalla famiglia fiorentina, che fece spesso raffigurare la loro effigie nelle opere sacre commissionate.

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    Francesco Botticini

    I tre arcangeli

    1471-1472 c.
    Tempera grassa su tavola
    Gallerie degli Uffizi, Galleria delle Statue e delle Pitture, sala 15, inv. 1890 no. 8359

     

    In un paesaggio campestre, incedono i tre arcangeli, da sinistra Michele, con l’armatura del guerriero vittorioso sul demonio, Raffaele, angelo custode del giovane Tobiolo che lo accompagna, Gabriele, il messaggero che annunciò alla Vergine Maria il concepimento del Figlio di Dio.

    Il dipinto sormontava l’altare della confraternita intitolata all’arcangelo Raffaele, detta il Raffa, nella chiesa di Santo Spirito a Firenze.  Protagonista principale è dunque san Raffaele, al quale nella composizione è riservata la posizione preminente, al centro.

    La storia di Raffaele e del giovane Tobiolo è narrata nel Libro di Tobia, uno dei testi deuterocanonici della Bibbia cristiana. Tobiolo fu mandato dal padre, un uomo cieco rimasto privo di risorse,  nella città di Madia  per recuperare del denaro consegnato a un amico. Il ragazzo intraprese il viaggio in compagnia del fedele cane e dell’arcangelo Raffaele, inviato da Dio per proteggerlo. L’arcangelo, ben riconoscibile nel dipinto, si presentò in realtà a Tobiolo sotto le mentite spoglie di Azarias, facendosi riconoscere solo al termine del cammino.

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    Francesco Botticini

    I tre arcangeli

    Durante il viaggio, in una sosta lungo il fiume Tigri, un grosso pesce cercò di azzannare la gamba di Tobiolo; anziché fuggirlo, Raffaele invitò il giovane a catturare il pesce per cibarsene e prenderne il cuore, il fegato e il fiele da usare come medicamenti. Sotto l’insegnamento dell’angelo, Tobiolo bruciò il cuore e il fegato per fare suffumigi capaci di liberare dai demoni la sua futura sposa Sara, mentre il fiele servì, al suo ritorno a casa, a guarire il padre dalla cecità. 

     

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    Francesco Botticini

    I tre arcangeli

    Protettore degli infermi e dei viaggiatori, l’arcangelo Raffaele conobbe una particolare devozione a Firenze nel Rinascimento, connessa probabilmente con l’incremento dei viaggi d’affari dei giovani rampolli della borghesia mercantile. Dalla vicenda di Tobiolo e dell’arcangelo, ebbe origine la venerazione per gli angeli protettori, gli angeli custodi.

    Anche il pittore Francesco Botticini, autore del dipinto ora agli Uffizi, ebbe una particolare venerazione per l’arcangelo. Iscritto alla confraternita del Raffa, chiamò il proprio figlio Raffaello.

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    Raffaello (scuola)

    Guarigione del cieco nato

    Inizi XVI secolo
    Penna e inchiostro, pennello e inchiostro diluito su carta
    Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi, Inv. 146 S

     

    Passando vide un uomo cieco dalla nascita  e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?».  Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio.

    Giovanni, 9, 1-3

    Giovanni, nel suo Vangelo, dedica l’intero capitolo 9 al racconto della guarigione del cieco nato, episodio che incontrò fortuna nella storia dell’arte soprattutto nell’età della Controriforma, interpretato come allegoria del ruolo della Chiesa di Roma che, come Cristo, sola può aprire gli occhi alla vera fede. Il racconto evangelico si apre con la domanda dei discepoli - “Chi ha peccato?”-, che insinua la cosiddetta ‘teoria della retribuzione’: se sei malato è perché hai peccato di fronte a Dio e per questo sei stato punito. Gesù dimostra che questa non è una verità. Il cieco, qui, è l’ uomo che non chiede e non crede, e guarisce prima fisicamente e poi spiritualmente. L’iniziativa parte da Gesù che “sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco”,  ripetendo il gesto della creazione (Genesi) quando Dio plasmò l’uomo dal fango. Gesù invia poi il cieco a lavarsi nella piscina di Sìloe. Siamo nel contesto della festa di Sukkot (la festa delle Capanne), dove il rituale prevedeva che si accendessero dinanzi al Tempio tantissimi bracieri per dare luce e che i sacerdoti scendessero alla piscina di Sìloe per raccogliere dei recipienti d’acqua. Sìloe significa “inviato”: il cieco viene “inviato” alla piscina, in un luogo lontano, ma si affida, va, e con l’acqua, riacquista la vista. Sulla via del ritorno egli conosce difficoltà nuove: nessuno gioisce per lui, ma viene insistentemente interrogato per conoscere chi sia il suo guaritore. Persino i genitori gli si mostrano estranei, forse per paura: “infatti i Giudei avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga.”. Ma il cieco guarito sembra non essere cosciente dell’identità del benefattore, lo chiama “un uomo chiamato Gesù”, poi un Profeta.  Quando i farisei lo cacciano via, Gesù torna da lui e solo allora il cieco risanato lo riconosce come Figlio di Dio.  Giovanni nel suo Vangelo chiama “segni” i miracoli operati da Gesù, proprio per indicare che questi non sono soltanto fatti prodigiosi, ma che soprattutto “significano” qualcosa. Nel racconto la fede non è prodotta dal miracolo della guarigione, ma dall’amara prova di tribolazione, solitudine e incomprensione.

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    Raffaello (scuola)

    Guarigione del cieco nato

    Il disegno presenta in primo piano il momento in cui Gesù tende la mano verso gli occhi del cieco, per spalmargli gli occhi con la mistura di fango. Il cieco è inginocchiato, rivolge il volto a Cristo e tiene aperte le braccia, in segno di fiducia e di completo affidamento. Gesù si china amorevolmente verso di lui. I due protagonisti sono sovrastati dal corteo di astanti che osservano l’accaduto lasciando trapelare un caleidoscopio di sentimenti e reazioni: curiosità, sorpresa, sdegno. Sopra la mano di Gesù che cura, si leva una mano aperta, in segno di disapprovazione, quasi a voler fermare l’atto. Alla varietà di espressioni contaminate dai sentimenti più umani, si contrappongono i profili sereni di Gesù e del malato, in un gioco di intesa che va oltre i sensi. E’ un’immagine, per quanto abbozzata, di incredibile potenza.  Il foglio, giunto nella collezione grafica degli Uffizi nel 1866 mediante la donazione di Emilio Santarelli, recava un tradizionale riferimento alla scuola di Raffaello (Santarelli/ Burci/ Rondoni 1870), mantenuto fino ad oggi in mancanza di nuovi elementi che consentano di avanzare ulteriori pareri attributivi certi.

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    Il Sodoma

    Stendardo di San Sebastiano

    1525
    Olio su tela
    Gallerie degli Uffizi, Galleria delle Statue e delle Pitture, depositi, Inv. 1890 n.1590

     

    Dipinto su entrambi i lati, in relazione alla funzione d’uso che ne richiedeva la visione sul fronte e sul retro, il gonfalone processionale fu ordinato al Sodoma nel 1525 dai membri della compagnia di San Sebastiano, uno dei numerosi sodalizi di pietà e assistenza ai malati che si raccoglievano nella zona di Porta Camollia a Siena. La tradizione riconosce a Sebastiano, pretoriano dell’esercito romano di fede cristiana condannato a morte da Diocleziano, il ruolo di protettore contro le malattie epidemiche, morbi che per molti secoli, e in particolare fra Tre e Settecento, flagellarono ripetutamente le terre europee. La passione del santo, condotto sul colle Palatino, legato a un albero e infilzato di frecce, trova la sua definizione iconografica dal Rinascimento in poi, quando Sebastiano incarna un ideale di bellezza forte e giovanile, vittoriosa anche sui tormenti più cruenti come potevano essere quelli inflitti da malattie sconosciute e fatali in quei secoli, ma con le quali pure gli uomini avevano imparato a convivere sviluppando intorno ad esse una rete di solidarietà sociale, come erano le confraternite.

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    Il Sodoma

    Stendardo di San Sebastiano

    Sodoma fissa il protagonista in primo piano con una pittura luminosa e delicatamente chiaroscurata,  su un fondo di paesaggio punteggiato di rovine antiche, di quelli che aveva imparato a conoscere a Roma, guardando l’esempio di Raffaello e dei suoi allievi. Il mito del santo, che gli agiografi definivano “athleta Christi”, coincideva- specialmente nella sensibilità rinascimentale- con il richiamo a un corpo perfetto e atletico, che si torce nel dolore seguendo la forma del tronco che lo vincola. Per trovare il giusto punto di perfezione formale e al tempo stesso incarnare l’espressione del dramma, Sodoma, come i suoi contemporanei, aveva a disposizione la vasta gamma di statuaria antica greco romana, inesausto serbatoio di modelli e forme. Più di tutte valeva il richiamo alla scultura più celebrata e copiata a Roma nel Cinquecento: il Laocoonte, il gruppo in marmo ritrovato nel 1506 sul colle Oppio e subito investito di una formidabile e duratura fortuna iconografica. L’icona del santo, languido nella sofferenza, il volto bellissimo solcato dalle lacrime mentre riceve dall’angelo la corona del martirio, era la prima ad apparire ai fedeli nel corso delle processioni, sollecitandone i più emozionati sensi di pietà e di fede.

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    Il Sodoma

    Stendardo di San Sebastiano

    La funzione dello stendardo, e il suo messaggio, trovano completamento nella scena raffigurata nella faccia posteriore, un’immagine più solenne e ufficiale, celebrativa della Vergine protettrice di Siena, che posa lo sguardo sul gruppo di devoti inginocchiati in basso. Al centro sono San Sigismondo e San Rocco, contitolari della compagnia, essi stessi annoverati tra i primi martiri cristiani.

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    Il Sodoma

    Stendardo di San Sebastiano

    In particolare San Rocco (Montepellier 1345/1350- Angera?, Varese 1376/79) è un’altra figura tradizionalmente legata al contesto delle guarigioni per il suo ruolo di protettore contro la peste. La leggenda vuole che Rocco, in pellegrinaggio verso Roma, dopo aver donato tutti i suoi beni ai poveri, sostò ad Acquapendente, presso Viterbo, dedicandosi all’assistenza degli ammalati e operando guarigioni miracolose che diffusero la sua fama. Ammalatosi lui stesso di peste, guarì e riprese il suo cammino e le sue opere di bene. Rocco sarebbe morto in prigione, dopo essere stato arrestato presso Angera da alcuni soldati, perchè persona sospetta. Il suo culto si diffuse straordinariamente nell’Italia del nord, specialmente in Lombardia. Sodoma raffigura il Santo col bastone da pellegrino e l’angelo suoi tradizionali attributi, mentre indica sulla gamba destra il ‘bubbone’, il gonfiore tumefatto marchio della terribile peste nera. Ai lati di Sigismondo e Rocco, vestiti di tunica e cappuccio bianchi, si dispongono i confratelli di Porta Camollia, ministri di quel conforto morale e corporale sentito come un dovere civico e che ancora oggi sopravvive nella tradizione assistenziale toscana.

    Il valore identitario e di funzione d’uso di quest’opera sopravvisse al tempo e ai rinnovamenti dell’oratorio: i confratelli rifiutarono infatti di venderla a mercanti lucchesi per una cifra considerevole, pur di conservarla nel suo luogo di origine. Ma nulla poterono a fronte della richiesta del granduca Pietro Leopoldo, che l’acquisì per le gallerie fiorentine nel 1784.

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    Pietro da Cortona

    San Filippo Neri guarisce dalla gotta Clemente VIII

    1640-42 c.
    Olio su tela
    Gallerie degli Uffizi, Galleria delle Statue e delle Pitture, depositi, inv. Oggetti d’arte Castello n. 483

     

    Il dipinto, considerato disperso, venne rintracciato nel 1969 nei depositi delle collezioni fiorentine e sottoposto a nuovi studi. Gli inventari medicei, che ne documentano l’avvenuto ingresso agli Uffizi nel 1677, se da un lato individuano la figura di San Filippo Neri, descrivendo la scena come un episodio di guarigione dalla gotta, tacciono invece sull’identità del pontefice, in passato variamente interpretata. Nell’occasione della riscoperta viene avanzato il nome di Clemente VIII (1592-1605), confermato anche dalla comparazione con una tela di Cristoforo Roncalli di soggetto analogo presente all’interno della Chiesa Nuova di Roma, roccaforte della Congregazione oratoriana fondata da San Filippo Neri. Il pontefice, al secolo Ippolito Aldobrandini, ricordato per i suoi tentativi di riforma del cattolicesimo, per la sua abilità nella politica estera, ma anche per la sua intransigenza che portò sul rogo Giordano Bruno, fu infatti pesantemente afflitto dalla gotta, conosciuta anche come la malattia dei re o dei papi perché diffusa prevalentemente tra i ceti più ricchi. Decisamente poco nota e curata con rimedi improvvisati, la gotta era stata imputata fin da Ippocrate a uno stile di vita dissoluto e opulento dal punto di vista alimentare, in realtà del tutto estraneo al pontefice che invece conduceva un’esistenza pia ed estremamente morigerata.

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    Pietro da Cortona

    San Filippo Neri guarisce dalla gotta Clemente VIII

    La scena qui rappresentata non si esaurisce tuttavia nel miracolo di San Filippo Neri, peraltro neppure il primo da lui compiuto nel corso della sua missione evangelizzatrice della tribolata Roma cinquecentesca. Pietro da Cortona pone infatti l’accento sull’intimità del momento e sulla fiducia con cui Clemente VIII affida la mano da risanare a “Pippo Buono”, un gesto che racchiude un legame di lunga data, consolidatosi proprio nel triennio 1592-1595, tra l’elezione del pontefice e la morte del Santo, entro il quale si colloca anche l’episodio della guarigione miracolosa dalla gotta. La franchezza d’eloquio tra i due è infatti reale (ai consigli di San Filippo Neri si attribuisce la riconciliazione del papa con Enrico IV di Francia) e l’intensa partecipazione con cui viene restituita dal pittore riflette a sua volta la vicinanza del Berrettini alla Congregazione per la quale lavorò a più riprese, realizzando anche il capolavoro della volta della Chiesa Nuova. Una sensibilità filo-oratoriana tra l’altro condivisa da vari esponenti della famiglia dei Medici, tra i quali Alessandro Ottaviano – seguace diretto del Santo e uomo chiave di Clemente VIII nella politica di sostegno ai Filippini – e il Cardinal Leopoldo, lui stesso frequentatore della Chiesa Nuova. Di provenienza ignota e di datazione incerta (oscillante tra il 1636, in analogia con i primi lavori romani per la Congregazione, e gli anni fiorentini 1640-1642), il dipinto mostra rapporti con la cultura toscana coeva sia per l’accurata descrizione dell’ambiente sia per il senso della narrazione che si estende sullo sfondo al particolare aneddotico dei due confratelli che assistono alla scena scostando la tenda, forse anche in rimando a quel modello di vita comunitario considerato da sempre la maggiore eredità del Santo.

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    Laurent de la Hyre (?)

    San Pietro guarisce gli ammalati con la sua ombra

    1650 c.
    Olio su tela
    Gallerie degli Uffizi, Galleria delle Statue e delle Pitture, depositi, inv. 1890, no. 1018

     

    Molti segni e prodigi avvenivano fra il popolo per opera degli apostoli. Tutti erano soliti stare insieme nel portico di Salomone, nessuno degli altri osava associarsi a loro, ma il popolo li esaltava. Sempre più, però, venivano aggiunti credenti al Signore, una moltitudine di uomini e di donne, tanto che portavano gli ammalati persino nelle piazze , ponendoli su lettucci e barelle, perchè quando Pietro passava, almeno la sua ombra coprisse qualcuno di loro. Anche la folla delle città vicino a Gerusalemme accorreva, portando malati e persone da spiriti impuri, e tutti venivano guariti.

    Atti degli Apostoli, 5,12-16

    L'episodio raffigurato, tratto dagli Atti degli Apostoli e reso memorabile dall'affresco di Masaccio nella Cappella Brancacci in Santa Maria del Carmine a Firenze, conobbe una nuova fortuna iconografica nel secolo XVII in coincidenza con le terribili epidemie di peste che falcidiarono la popolazione. Nel dipinto Pietro, avvolto in un manto giallo e con in mano le chiavi, scende le scale del portico del Tempio proiettando la sua ombra su uno storpio prostrato ai suoi piedi, mentre tutt'intorno accorrono donne e uomini invocandone l'aiuto. In primo piano sulla sinistra, a mo' di quinta compositiva, una madre con in braccio un bambino sorridente, siede per terra rivolgendo lo sguardo verso San Pietro, fulcro radioso della scena, che nella sua fiera monumentalità ben incarna l'Apostolo designato da Cristo come “la pietra sulla quale costruire la Chiesa”(Matteo 16, 18). Sullo sfondo il monumentale portico del Tempio di Salomone col soffitto a cassettoni si apre su uno scenografico edificio di impronta classicheggiante.

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    Laurent de la Hyre (?)

    San Pietro guarisce gli ammalati con la sua ombra

    Il dipinto, volto a confortare il fedele celebrando il ruolo misericordioso della Chiesa durante le ripetute pestilenze, fu acquistato a Parigi nel 1793 da Francesco Favi per il granduca di Toscana Ferdinando III e attribuito in questa circostanza a Laurent de la Hyre, colto artista parigino, autore di un quadro di analogo soggetto per la cattedrale di Notre Dame.

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    Livio Mehus

    San Zanobi ridona la vista a un cieco

    1665 c.
    Olio su tela
    Palazzo Pitti, Galleria Palatina, sala di Berenice, Inv. Poggio Imperiale 1860 no. 1216

     

    La parabola del mendicante miracolosamente salvato dalla cecità è tra gli episodi della vita di San Zanobi più frequentemente rappresentato dagli artisti tra XV e XVII secolo. Al secondo vescovo di Firenze, vissuto nel IV secolo, venerato compatrono della città insieme ad Antonino e protettore dal 1651 dell’Accademia della Crusca, la tradizione popolare fiorentina riconosceva il compito di difensore dai morbi. La scena illustra il momento in cui il santo, sulla soglia della chiesa dove ha appena terminato di celebrare la messa, impone la mano sugli occhi del cieco, restituendogli la vista e guadagnando la sua conversione. Egli ci appare dunque non solo in veste di taumaturgo, ma anche come evangelizzatore delle terre orientali, secondo il dettato della tradizione agiografica. La semplicità del suo gesto, la compostezza severa del portamento, reso ancor più solenne dal fascio di luce che provenendo da sinistra si concentra su di lui, contrastano con l’animata reazione di uomini e donne tutt’intorno, dalla giovane madre seduta in terra ai chierici, fino ai due fanciulli a destra. Di ognuno di essi, il pittore fissa con una pittura rapida e narrativa, fatta di tocchi e contrasti di colore, l’espressione genuinamente sbigottita, gli occhi sgranati e quasi increduli di fronte all’improvvisa manifestazione di un potere soprannaturale e salvifico.

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    Livio Mehus

    San Zanobi ridona la vista a un cieco

    Eppure non è una narrazione enfatica ed oratoria, quella che il pittore ha ricercato, quanto l’espressione di un momento di vita, quale si sarebbe potuto immaginare inscenato nelle strade della Firenze contemporanea al pittore e ai suoi committenti. Proprio i simboli delle fede e insieme dell’orgoglio civico fiorentino, la cupola brunelleschiana e il campanile di Giotto, siglano il paesaggio in lontananza, intarsiati nel tramonto striato di nuvole bianchissime.

    Il dipinto fu verosimilmente commissionato al fiammingo Livio Mehus dal cardinale Leopoldo, e adornava l’altare della sua cappella privata al secondo piano di Palazzo Pitti.

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    Giovanni Bonatti

    San Carlo Borromeo visita gli appestati

    1673-75
    Olio su tela
    Gallerie degli Uffizi,Galleria delle Statue e delle Pitture, depositi, inv.1890 no.1346

     

    Aveva sin da principio della peste fatta determinazione san Carlo di fare tutti gli uffici di buon pastore verso il suo gregge e amministrargli anche i santissimi sacramenti in evento di bisogno;.....e facendo provvedere delle cose necessarie, andava vestito pontificalmente per tutte le contrade della città amministrandolo alle porte delle case, mentre ancora si faceva la quarantena, con quella maggior riverenza ch'egli poteva in quell'occasione … e fu tenuto che molti infermi di mal contagioso fossero unti da lui perchè girò in tutte le parti della città eziandio ov'era il sospetto della pestilenza [...] Pareva che all'apparire di questo benedetto santo ognuno ricevesse la vita e che egli sgombrasse dai petti dei poveri infermi e afflitti ogni angustia e timore.

     

    Cosi scrive Gian Pietro Giussani nella Vita di san Carlo Borromeo, pubblicata nel 1610, anno in cui papa Paolo V canonizzò il cardinale, morto il 3 novembre del 1584. Allo scatenarsi della terribile epidemia di peste in Lombardia, nel 1576, il Borromeo, assente da Milano perché in visita pastorale, rientrò subito, mentre il governatore spagnolo e il gran cancelliere fuggivano via. In città il cardinale organizzò l’opera di assistenza e aiutò tutti personalmente e instancabilmente fino al punto da ricevere un rimprovero dal Papa, preoccupato per la sua salute. Il suo culto, diffuso quando era ancora in vita, crebbe rapidamente dopo la morte e la sua figura divenne ben nota in tutta Italia grazie alla circolazione di dipinti, affreschi, incisioni, sculture, apparati effimeri, stendardi.

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    Giovanni Bonatti

    Nel dipinto del Bonatti San Carlo Borromeo è rappresentato in abiti cardinalizi mentre, accompagnato da un chierico, visita gli appestati e amministra l'estrema unzione a un moribondo. L'epidemia che sconvolse la Lombardia passò alla storia come la “peste di San Carlo” e fu ricordata anche da Manzoni in riferimento alla peste del 1630: “C’era soltanto alcuni a cui [quei fatti] non riuscissero nuovi: que’ pochi che potessero ricordarsi della peste che, cinquantatrè anni avanti, aveva desolata pure una buona parte d’Italia, e in ispecie il milanese, dove fu chiamata, ed è tuttora, la peste di San Carlo. Tanto è forte la carità! Tra le memorie così varie e così solenni di un infortunio generale, può essa far primeggiare quella d’un uomo, perché a quest’uomo ha ispirato sentimenti e azioni più memorabili ancora de’mali.” (I Promessi Sposi, capitolo XXXI).

    Il dipinto venne realizzato da Giovanni Bonatti tra il 1673 e il 1675 come “modelletto” per la pala della cappella Spada, dedicata a San Carlo Borromeo nella chiesa di Santa Maria in Vallicella a Roma, su commissione del marchese Orazio Spada.

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    Jacques Callot

    Illustrazioni dal volume di Giovanni Angelo Lottini, Scelta d’alcuni miracoli e grazie della Santissima Nunziata di Firenze

    1619
    Bulino
    Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi

     

    Dal pontefice Innocenzo VIII - “afflitto da grandissimi dolori nominati intestini”- al meno illustre Lionardo di Massa di Carrara dalle “storpiate membra”, che si reca personalmente nella Chiesa della Santissima Annunziata e abbandona lì le sue grucce gridando “O Vergine […] per opera tua, io non son più storpiato”; dalla “donna languente”, che una volta risanata dona al santuario una statua di cera a grandezza naturale, a Margherita, la gentildonna bolognese che riceve un “collirio così possente, e salutifero” da farle ritrovare la vista, sono innumerevoli i miracolati per grazia ricevuta dalla Vergine. Il padre servita Giovanni Angelo Lottini, nel suo libro dei miracoli dedicato al santuario fiorentino della Santissima Annunziata, descrive ottanta eventi prodigiosi, circa la metà dei quali illustrati da incisioni di Jacques Callot. Pubblicato una prima volta nel 1619 con la dedica a una devota di tutto rispetto - la granduchessa Cristina di Lorena, abituale frequentatrice della chiesa - il libro vide una seconda edizione nel 1636. Il francese Callot, attivo in quegli anni a Firenze, era nelle grazie dei Medici e ben introdotto presso i Servi di Maria: dovette dunque sembrare l’incisore ideale al quale affidare il progetto.

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    Jacques Callot

    Illustrazioni dal volume di Giovanni Angelo Lottini, Scelta d’alcuni miracoli e grazie della Santissima Nunziata di Firenze

    Immagine: Carlo Dolci, Annunciazione (copia del dipinto trecentesco conservato nella chiesa della Santissima Annunziata), Palazzo Pitti, Appartamenti Reali e Imperiali, inv. Oggetti d'arte Pitti 1911 no. 839

    Strettamente legati al tema delle guarigioni miracolose sono gli ex-voto, che hanno il duplice fine di testimoniare l’evento miracoloso tramandandone la memoria – le tavolette dipinte con scene di miracoli - e di esprimere la gratitudine del miracolato nei confronti di chi ha concesso la grazia. Luogo privilegiato a Firenze per l’offerta di immagini votive era la Santissima Annunziata. Il miracoloso affresco trecentesco dell’Annunciazione aveva sempre suscitato grande devozione, tanto che l’incontrollabile proliferare di oggetti votivi che ricoprivano l’interno della chiesa dal pavimento al soffitto costituiva una preoccupazione per i padri serviti. Questi non solo si rammaricavano per il disordine generale e la polvere che si cumulava su di essi, ma temevano incidenti che potevano mettere a repentaglio la vita dei devoti, come almeno in un caso accadde. Non era infrequente che manufatti anche di grandi dimensioni o parti di essi, rosi dai tarli, cadessero a terra dalle travi sulle quali erano appesi. Attorno al 1650 il padre Ferdinando Mancini conta, oltre a tanti elementi anatomici in cera, circa seicento statue a grandezza naturale, duemila ex-voto in cartapesta e tremilaseicento tavolette dipinte.

    Questo cumularsi disordinato di materiali eterogenei e la necessità di controllare le espressioni di devozione più eccessive, alcune delle quali rischiavano di scadere nella superstizione, spinsero i padri serviti ad agire per riportare la spontanea e viscerale devozione del popolo fiorentino sotto lo spirito della Controriforma. Così, già da fine Cinquecento, avevano coinvolto un gruppo di artisti tra i quali personaggi del calibro di Antonio Tempesta, Matteo Rosselli, Giovanni Bilivert - alcuni anche inventori delle figurazioni nelle incisioni di Callot – nell’esecuzione delle cosiddette  tele di “memoria ex voto”, trentatrè dipinti votivi che presentavano i principali miracoli dell’Annunziata secondo i dettami della Chiesa piuttosto che secondo la fantasia di pittori dilettanti.

     

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    Jacques Callot

    Illustrazioni dal volume di Giovanni Angelo Lottini, Scelta d’alcuni miracoli e grazie della Santissima Nunziata di Firenze

    Ad Innocenzio Ottavo, il quale si sentiva / venir verso 'l fine, vien per aiuto di / MARIA tolto 'l pericolo del morire

    A’ Margherita gentildonna Bolognese lungo tempo / cieca, vien per miracolo della NUNZIATA / reso il vedere, da Matteo Rosselli

    bulino
    Uffizi, Gabinetto dei disegni e delle stampe, inv. nn. 96191 e 96204

    A questo stesso programma culturale appartiene il libro dei miracoli di Lottini, che preserva la memoria di eventi prodigiosi che vanno dal 1252 al 1612 sottraendoli al rischio di oblio legato alla precaria conservazione delle tavolette dipinte o delle statue di cera. Scopo del progetto era anche quello di accrescere la reputazione del santuario fuori Firenze attraverso un’opera di facile diffusione, sostenuta dalla facilità divulgativa di incisioni raffinate nell’esecuzione e chiare nei contenuti. Il volume godette di una eccezionale fortuna, circolò anche in diversi paesi fuori della Penisola e codificò una volta per tutte la rappresentazione di alcuni dei miracoli della Santissima Annunziata.

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    Jacques Callot

    Illustrazioni dal volume di Giovanni Angelo Lottini, Scelta d’alcuni miracoli e grazie della Santissima Nunziata di Firenze

    Lionardo, nella Cappella della NUNZIATA dove / andò per voto à raccomandarsi, guarisce subi:/tamente dello storpiato, da Matteo Rosselli

    Donna languente, senza rimedio essendo’l suo / male, raccomandasi alla NUNZIATA et è fatta sana, da Giovanni Bilivert

    Bulino
    Uffizi, Gabinetto dei disegni e delle stampe, inv. nn. 96207and  96194

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    Rembrandt

    Cristo che guarisce gli ammalati (“La stampa da cento fiorini”)

    1647-49
    Acquaforte, puntasecca, bulino
    Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi, inv. n. 6056 st sc

     

    Gesù partì dalla Galilea e andò nel territorio della Giudea, al di là del Giordano. E lo seguì molta folla e colà egli guarì i malati.

    Mattteo, 19,1-2

    Figura miracolosa e salvifica per eccellenza è Gesù, qui presentato secondo il racconto evangelico di Matteo. Rembrandt riunisce in un’unica scena diversi episodi mettendoli a confronto con un personale e organico sforzo di interpretazione. Quella che ne deriva è una delle sue più celebri incisioni, che accosta il tema della guarigione dalle infermità a quello della purezza dell’anima - “Lasciate che i bambini vengano a me, perché di questi è il regno dei cieli” (Mt 19, 14).

    Sorprendono le varie gestualità e le diverse espressioni dei personaggi rappresentati, un’umanità derelitta che osserva una precisa disposizione rispetto alla figura di Cristo: gli infermi alla sua destra, dalla parte della mano che benedice e i bambini accompagnati dalle madri accorrono da sinistra, verso la mano che accoglie. Un gruppo di scettici farisei (“Allora gli si avvicinarono alcuni farisei per metterlo alla prova”, Mt 19, 3) apre la scena a sinistra e un cammello la chiude a destra sullo sfondo (“… è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli”, Mt 19, 13).

    La tecnica mista adottata da Rembrandt in quest’opera connota l’artista come eccezionale sperimentatore. Per l’esecuzione della matrice della stampa, infatti, accostò l’incisione con l’acido (l’acquaforte) a quella diretta eseguita con il bulino, preciso e tagliente, e alla puntasecca, stilo metallico che restituisce un tratto morbido e vellutato. Solo così poté raggiungere i neri profondi dell’oscurità più insondabile, contrapposta all’accecante luce divina ottenuta a risparmio col bianco della carta. Cristo è collocato al centro, nel punto cruciale e di maggiore contrasto tra luce e ombra. Tra questi due estremi, le raffinate variazioni tonali dei grigi conferiscono profondità alla scena. Semplici linee di contorno tracciano i personaggi avvolti dalla luce – come quello che parrebbe essere il giovane ricco invitato invano da Gesù a vendere i suoi averi e seguirlo (Mt 19, 22), e al quale rimanda pure la figura del cammello – mentre fitti tratteggi paralleli e incrociati insistono sulle figure parzialmente o totalmente in ombra. 

    L’incisione, di grande formato, è comunemente nota come “La stampa da cento fiorini” probabilmente in riferimento al prezzo di vendita. Le fonti riportano anche l’aneddoto secondo cui Rembrandt, volendo acquistare delle stampe di Marcantonio Raimondi pari a quel valore, le avrebbe barattate con un esemplare di quest’opera.

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    François-Xavier Fabre

    Gesù risana il cieco

    Inizi XIX secolo
    Penna e bistro su carta bianca
    Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi, inv. 11820 S

     

    E giunsero a Gerico. E mentre partiva da Gerico insieme ai discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Costui, al sentire che c'era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!». Molti lo sgridavano per farlo tacere, ma egli gridava più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». Allora Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». E chiamarono il cieco dicendogli: «Coraggio! Alzati, ti chiama!». Egli, gettato via il mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Allora Gesù gli disse: «Che vuoi che io ti faccia?». E il cieco a lui: «Rabbunì, che io riabbia la vista!».  E Gesù gli disse: «Va', la tua fede ti ha salvato». E subito riacquistò la vista e prese a seguirlo per la strada.

    Marco 10, 46-52

    L’ambientazione del disegno di Fabre, con la folla alle porte di una città fortificata, e il dettaglio del mantello lasciato vicino al pozzo, suggeriscono si tratti della guarigione del cieco Bartimèo e non del cieco nato, narrata dal Vangelo di Giovanni, le cui rappresentazioni spesso si confondono.

    L’ultima guarigione operata da Cristo avviene alle porte di Gerico, in un momento temporale che si colloca prima dell’ingresso in Gerusalemme.  Qui il cieco è l’uomo che ha fede e chiede espressamente di essere guarito: riconosce subito Gesù come Salvatore di Israele, gridandogli “Figlio di Davide” e poi, invocando di riavere la vista, lo chiama col titolo strettamente confidenziale di "rabbunì", che significa "mio maestro" o "mio grande", epiteto superiore a "rabbi" o "maestro", usato anche dai nemici di Gesù. Bartimèo manifesta la sua fede, prima che Gesù compia il suo destino in Gerusalemme. “La tua fede ti ha salvato”: il cieco recupera la vista e lo segue

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    François-Xavier Fabre

    Gesù risana il cieco

    François-Xavier Fabre, autore del disegno, fu il migliore allievo di David a Parigi e visse a Firenze per oltre trent’anni (1793-1824). Qui incontrò i due personaggi più famosi della città: il celebre poeta tragico Vittorio Alfieri e la sua compagna Louise di Stolberg, contessa di Albany, "regina" di un brillante salotto letterario e artistico che permise a Fabre di inserirsi rapidamente negli ambienti degli stranieri a Firenze fino a diventarne il pittore preferito. Pittore di storia, paesaggista e prezioso ritrattista della società cosmopolita europea (suoi i popolari ritratti di Alfieri e Foscolo), Fabre si cimentò anche nei soggetti sacri.

    Il disegno si distingue per il dinamismo delle pose e dei gesti dei personaggi, accentuato da un veloce tratteggio e dalle mezze tinte. Alla vivacità della scena principale si contrappone la scenografica distesa dell’imponente cinta muraria, al di là della quale si erge la città.  L’esecuzione mostra la piena maturità espressiva del pittore, che nel 1801 fu nominato ritrattista ufficiale di corte nell’intermezzo del Regno di Etruria.

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    Pietro Benvenuti

    San Sebastiano curato dalle pie donne

    1803-1804 c.
    Matita nera su carta verdastra
    Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi,  inv. n. 109583

     

    Precocissimo talento, Pietro Benvenuti dopo un periodo di formazione all'Accademia di Firenze, fece un lungo soggiorno a Roma (1792-1804) dove tra XVIII e XIX sec. i promettenti giovani artisti si recavano per studiare le opere dell'antichità e ne traevano quella misura di bellezza e magniloquenza che furono la cifra dell'arte neoclassica.

    In questa scena la teatralità delle pose rimanda ad uno dei grandi epigoni del Neoclassicismo, il pittore francese Jacques-Louis David che influenzò il giovane Benvenuti, e che a sua volta a Roma era stato influenzato, oltre che dall'arte antica, da quella italiana del Seicento. L'accuratezza nei dettagli e la finitezza delle forme indicano quanto meticoloso e attento fosse il pittore, erede della tradizione disegnativa toscana. Il foglio quadrettato è probabilmente uno studio preparatorio per un grande dipinto oggi perduto ed eseguito intorno al 1803/1804 per il marchese Albergotti di Arezzo.

    Pietro Benvenuti in Toscana fu pittore di grande successo, lavorando per la corte di Elisa Baciocchi e poi per la corte lorenese dopo la fine dell'epopea napoleonica: una delle commissioni più importanti fu la decorazione della Sala di Ercole al primo piano di Palazzo Pitti (1817-1829).

    Sebastiano, il pretoriano vissuto nel III secolo d.C., nato da genitori cristiani ed entrato nella guardia personale degli imperatori Massimiano e Diocleziano, portava conforto ai condannati a morte e riusciva, grazie alla sua carica, ad ottenere la liberazione di molti di loro. Diocleziano, venuto a conoscenza della fede di Sebastiano, lo condannò a morte e ordinò che venisse trafitto da frecce. Il suo corpo esangue venne raccolto da Irene, vedova di un funzionario imperiale martirizzato, che con l'aiuto della sua serva intendeva dargli degna sepoltura. Ma il giovane, nonostante il supplizio, era ancora in vita e Irene con grande cura e dedizione guarì le sue ferite.

    Sebastiano, appena ne ebbe la possibilità, si mostrò all'imperatore accusandolo di ingiusta crudeltà nei confronti dei cristiani: fu così che Diocleziano decise di farlo uccidere a frustate e di farne gettare il corpo nella Cloaca Massima, così che non fosse possibile recuperarlo per seppellirlo. Ma Sebastiano apparve in sogno alla matrona romana Lucina indicandole il luogo in cui si trovava il suo corpo che venne così recuperato e sepolto nelle catacombe sulla via Appia a fianco dei santi Pietro e Paolo. I pellegrini che si recavano alla tomba degli apostoli trovavano anche la sepoltura del pretoriano il cui culto divenne presto molto popolare. Sopra le catacombe nel IV secolo venne eretta una basilica dedicata ai Santi Pietro e Paolo.

    Quando Roma fu colpita nel 680 da una terribile pestilenza ci si affidò nelle preghiere a san Sebastiano a cui venne attribuita la fine dell'epidemia. La basilica che ne conservava le spoglie divenne per tutti la “Basilica Sancti Sebastiani”.

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    Pietro Benvenuti

    San Sebastiano curato dalle pie donne

    Nell'agiografia tradizionale e nella sua rappresentazione pittorica, le ferite causate dalle frecce furono assimilate ai bubboni della peste e, a partire dalla pestilenza romana del 680 fino a quelle di mille anni più tardi, il santo fu venerato come protettore dalle epidemie: se ne invocavano l'intercessione e la protezione con la preghiera, costruendo chiese e commissionando opere d'arte a lui dedicate. Nel corso dei secoli, il martirio per trafittura divenne l'occasione di rappresentare un corpo bello, giovane e forte che sopporta il supplizio con sguardo malinconico rivolto al cielo in attesa della palma del martirio.

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    Giovanni Colacicchi

    San Sebastiano

    1943
    Olio su tela
    Palazzo Pitti, Galleria d’Arte Moderna, depositi, inv. Giornale 5563

     

    È il 1943 quando Giovanni Colacicchi, sfollato con la famiglia a Vallombrosa dove è ospite presso la Casa al Dono dello storico dell’arte Bernard Berenson, dipinge il San Sebastiano. A rendere ancora oggi vivo il ricordo di quelle sessioni di posa sono una fotografia del set allestito nello studio di Berenson e la testimonianza della moglie dell’artista, Flavia Arlotta. Quest’ultima ricorderà di come il modello, Guido Fabiani, legato a un tronco con sotto i piedi un ceppo tagliato, a dispetto dell’apparente scomodità della posizione, tendesse spesso ad assopirsi e di come invece un giorno, un’amica, trovando la casa vuota, si fosse davvero intimorita credendolo sotto tortura. I tempi d’altro canto sono cupi, dalla Casa al Dono transitano soldati ed ebrei in fuga, e Colacicchi, pittore raffinato e professore all’Accademia di Belle Arti di Firenze, non può sottrarsi a una riflessione, peraltro condivisa con Berenson, sul ruolo della bellezza e della cultura a fronte del dramma della guerra. La scelta del soggetto ricade su San Sebastiano, santo delle guarigioni per antonomasia, sopravvissuto prodigiosamente alle frecce del martirio grazie alle cure di Irene ed elevato a sua volta a martire di culto per la protezione contro la peste. Una facoltà taumaturgica di origini incerte, consolidatasi soprattutto a seguito delle epidemie scoppiate a Roma e Pavia nel VII secolo, miracolosamente cessate proprio grazie all’invocazione del Santo. Ad orientare la scelta di Colacicchi, più che una richiesta di prodigio, dovette tuttavia essere la possibilità di cimentarsi con quel canone di bellezza ideale che dal Rinascimento caratterizzava l’iconografia di San Sebastiano e sul quale aveva forse avuto modo di meditare durante gli studi, dati alle stampe in quello stesso 1943, su Antonio del Pollaiolo, autore con il fratello Piero di una famosa versione del martirio, oggi alla National Gallery di Londra. L’artista rinuncia tuttavia all’elemento tipizzante delle frecce, invece fortemente radicato nel racconto agiografico del V secolo che descriveva il martire trafitto da così tanti dardi da «farlo sembrare simile a un riccio».

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    Giovanni Colacicchi

    San Sebastiano

    Niente vìola qui la bellezza del corpo che Colacicchi mette in scena, esaltato dalla luce radente che arriva da sinistra, languido e sensuale come vuole la rilettura moderna attivata nel 1911 da Le martyre de Saint Sébastien di Gabriele D’Annunzio dove il corpo efebico del Santo, portato in scena da Ida Rubinstein, incarna la perfezione umana, insieme estetica e morale. Anche Colacicchi sentirà l’esigenza a posteriori di spogliare il dipinto della sua valenza religiosa. Lo chiamerà infatti L’uomo legato, ripensando, come scriverà Flavia Arlotta, «a quello che succedeva intorno a noi mentre lo dipingeva, e ai partigiani». Tempi cupi, appunto, adombrati anche nella fitta abetaia vallombrosana dello sfondo (così diversa dai suoi consueti tributi al “Dio Sole”), ai quali tuttavia l’artista oppone l’intangibilità dello spirito e della bellezza.

Guarigioni miracolose

Malattia e intervento divino. L'arte interpreta il miracolo in opere dal Tre al Novecento

Progetto e coordinamento: Patrizia Naldini

Saggio introduttivo di Angelo Tartuferi

Testi di Daniela Parenti, Patrizia Naldini, Anna Bisceglia, Chiara Toti, Cristina Gnoni, Laura Donati, Chiara Ulivi

Revisione testi: Patrizia Naldini e Chiara Ulivi

Traduzioni: Eurotrad Snc.

Grafica: Andrea Biotti

Crediti fotografici Francesco del Vecchio e Roberto Palermo  

 

Nota: ogni immagine della mostra virtuale può essere ingrandita per una visione più dettagliata.

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