Paradiso, Canto III
GDSU inv. 3550 F
Quali per vetri trasparenti et tersi,
o ver per acque nitide et tranquille,
non sì profonde che i fondi sien persi,
tornan de’ nostri visi le postille
debili sì che perla in bianca fronte
non vien men tosto a’ le nostre pupille;
Cotal vidi più faccie a parlar pronte;
per ch’io dento a l’error contrario corsi
a quel ch’accese amor tra l’homo e ‘l fonte.
Il primo cielo della Luna appare diviso in tre zone mediante una serie di sfere inscritte l’una nell’altra: in alto, è raffigurata Artemide con un cane e un cervo; al centro si vedono le anime quasi evanescenti dei beati; in basso, in corrispondenza della falce di luna, è infine raffigurato Dante, in compagnia di Beatrice, di Stazio e delle sette Virtù, al cospetto di Piccarda Donati e di Costanza imperatrice.
I complessi significati dottrinali e teologici del canto III sono interamente affidati alla trascrizione dei versi danteschi che incornicia il disegno.
Commento di Federico Zuccari: «Paradiso. I cielo della luna. Canto I. Havendo il poeta ingegniosissimamente descritto sin hora l’Inferno e ‘l Purgatorio, descrive hora con mirabile artificio come salisse al primo cielo per andare al Paradiso, dicendo che per salire al cielo de humano si trasmutò in divino; volendone sotto alleggorico sentimento dimostrare che per salire al cielo et acquistar la vita eterna bisogna lasciare i pensieri sensuali, e che ci vestiamo della divinità, cioè del bene e perfettamente operare.
Canto II. Non vorrebbe il poeta sparger gemme davanti a’ porci, com’è in proverbio, onde ammonisce gl’ignoranti che non voglino ascoltar la sua compositione, ma solamente quelli che sono di spirito alto et ellevato. Narra appresso come s’alzasse alla sfera della luna.
Canto III. Altro non si contiene nel presente canto se non che ‘l poeta finge haver trovato nel corpo della luna fra le altre beate anime quella di Piccarda, e che da quella intese come quivi erano poste l’anime di quelle che havevano fatto voto e professione di verginità, e violentamente n’erano state tratte fuora.
Canto IV et V. Solve Beatrice nel presente canto il dubbio mossoli dal poeta nel fine del precedente, essortando molto ciascuno a non così leggiermente moversi a far voti, e pur facendoli ad avvertir bene, come per essere il voto appresso a Dio di grandissimo obligo. Poi sale al secondo cerchio, che è quello di Mercurio, nel corpo del quale pianeta, finge il poeta haver trovato infinite anime, le quali vennero a lui, et una di quelle dopo il gratioso saluto se gl’offerse pronta a rispondere a ogni e qualunque cosa ch’egli desiderava saper da loro» (fol. 76 verso).
Versi della Divina Commedia copiati: Par. III, 10-18; 34-93
Versi della Divina Commedia illustrati: Par. III, 10-17; 30; 34-37; 109-110