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Ara funeraria di Titus Flavius Athenaeus

Arte romana

Data
Prima metà del II secolo a.C.
Collezione
Scultura
Collocazione
A36
Tecnica
Marmo italico
Dimensioni
96,5 cm (altezza); 59,2 cm (larghezza); 29 cm (profondità), 3,8-4,5 cm (altezza lettere)
Inventario
1914 n. 1745

Rinvenuta a Roma nella chiesa di Santo Stefano degli Ungheresi, l’ara viene trasferita prima nel Collegio Germanico-Ungarico e successivamente nella Vigna Torre presso la Porta Salaria, dove rimase sino all’inizio del XVII secolo (CIL, VI 18004; EDR 111203).

Il manufatto entrò a far parte della collezione Ludovisi sino al XX secolo, quando fu acquisita nella collezione Heikamp per essere infine donata agli Uffizi nel 1994.

Si tratta di un altare funerario in forma di tempietto privo di coronamento. L'iscrizione dedicatoria è posta all’interno di una cornice mondanata, ed è racchiusa da due colonne tortili con capitelli corinzi e sfingi che sostengono un'alta trabeazione timpanata. Sul frontone si staglia una figura alata con braccia allargate a stringere nelle mani due girali vegetali. Nei pennacchi sono inseriti due eroti alati che convergono in volo verso il centro. Sui lati sono rappresentati a sinistra il dedicante togato, a destra il defunto.

Testo

Sul lato destro

T(itus) Flavius Athenaeus

Tito Flavio Ateneo

 

Sulla parte frontale

Memoriae

T(iti) Flavi T(iti) f(ili) Fab(ia)

Athenaei,

vixit annis XXII,

5 menses III,

dies V,

horas III,

Nicostratus lib(ertus)

Il liberto Nicostrato (fece)

Alla memoria

Di Tito Flavio Ateneo

Figlio di Tito Fabia

Che visse 22 anni,

3 mesi,

5 giorni,

3 ore

 

Sul lato sinistro

T(itus) Flavius Nicostratus

Tito Flavio Nicostrato

L'altare fu dedicato alla memoria di un ragazzo morto all’età di 22 anni. Egli doveva essere il figlio di un liberto imperiale della famiglia del Flavii. Il dedicatario fu il liberto Tito Flavio Nicostrato il cui nome e la cui effige sono posti sul lato della scultura insieme a quelle del defunto.

Bibliografia

D. Gionta, Epigrafia umanistica a Roma, Messina 2005, tav. XVIII (4).

Testo di
Federica Calabrese
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