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Approfondimenti | 07/08/2018

Maestra Elisabetta Sirani, “Virtuosa del Pennello”

Maestra Elisabetta Sirani, “Virtuosa del Pennello”

La pittrice barocca e incisore Elisabetta Sirani (1638-1665) fu una delle figure artistiche più innovative e influenti di Bologna, specialmente nei confronti delle donne operanti in città. Ritenuta dai suoi contemporanei "il miglior pennello di Bologna", l’artista, fregiata del titolo riconosciuto di "maestra", mise a punto uno stile elegante ed espressivo. Questo articolo intende, da un lato, esaminare l’opera e il lascito di Elisabetta – dalla sua promozione a capo della bottega Sirani alla fondazione da parte sua di una scuola d’arte per fanciulle –, dall’ altro, proporre qualche nuova attribuzione.

La mostra tenutasi recentemente agli Uffizi presso il Gabinetto dei Disegni e delle Stampe, dal titolo Dipingere e disegnare "da gran maestro": il talento di Elisabetta Sirani (Bologna, 1638-1665)[1], mi offre lo spunto per scrivere di questa dotta e prolifica pittrice,incisore e disegnatrice. Elisabetta Sirani era la figlia più famosa dell’affermato artista e mercante d’arte bolognese Giovanni Andrea Sirani (1610-1670), che le insegnò a dominare i pennelli. Quanto al padre, aveva avuto per maestro Guido Reni, il pittore più importante d'Italia, al cui stile classico Elisabetta fu al principio iniziata prima di raggiungere la propria autonoma cifra, espressiva e intima – ovvero prima di trovare il modo di " far maniera da sé", per dirla col suo biografo e mentore, il conte Carlo Cesare Malvasia.[2        

Elisabetta nacque venerdì 8 gennaio 1638 nella Bologna post-tridentina, ovvero nella città più importante dello Stato Pontificio dopo Roma. La Controriforma garantì commissioni ininterrotte agli artisti, ingaggiati non solo dalla Chiesa cattolica, ma anche da mecenati privati in cerca di immagini devozionali per le loro dimore. Le famiglie più in vista di Bologna erano anche interessate a dipinti di argomento profano di cui ornare i loro palazzi patrizi, mentre l’intellighenzia accademica cittadina necessitava di ritratti dei suoi più illustri dottori, scienziati e giuristi. Elisabetta era in grado di soddisfare questa richiesta di quadri a tema sia sacro sia mondano offrendo una gamma di generi e soggetti che andava dalla pittura storica alle pale d’altare di grandi dimensioni senza trascurare le opere devozionali di formato ridotto (fig. 1), dalle raffigurazioni tratte dalla mitologia classica (fig. 2) o dalla letteratura (fig. 3) fino all’allegoria e alla ritrattistica.           

In Europa, alla sua epoca, le donne non disponevano di molte opportunità di affermazione professionale, private com’erano, perlopiù, di ogni prospettiva di formazione e perfezionamento in quanto destinate a una vita da spose, madri o religiose. La fortuna di Elisabetta fu quella di vivere in una città di ampie vedute, permissiva nei confronti dell’educazione femminile. Le donne intenzionate a intraprendere la carriera artistica avevano per la maggior parte un parente maschio disposto a istruirle nella bottega di famiglia. Essere figlia di un artista spianò quindi a Elisabetta la via di quel successo che avrebbe fatto di lei un’affermata pittrice professionista in un settore a netta preponderanza maschile. L’eccezionalità di Elisabetta Sirani è data tuttavia dalla creazione di un nuovo modello didattico, la cui peculiarità consisteva nel fatto che l’istruzione di fanciulle e giovani donne nel disegno e nella pittura era impartita direttamente dall’artista come formatrice anziché dal padre, dal marito o da qualche fratello delle apprendiste. Il suo profilo rivoluzionario si precisa pertanto come quello di una delle prime artiste a fondare un istituto artistico professionale per studentesse al di fuori delle mura d’un convento. Accanto alle due sorelle minori Barbara e Anna Maria, compare fra le sue allieve Ginevra Cantofoli, artista già affermata che avrebbe stretto amicizia con Elisabetta divenendo la sua assistente. Malvasia – secondo il quale una serie di giovani donne e fanciulle bolognesi s’ispirarono al suo modello artistico: "seguono l'esempio di questa tanto degna pittrice" –  annovera un elenco di undici apprendiste in tutto, fra le quali menziona Elena Maria Panzacchi, Veronica Fontana, Lucrezia Scarfaglia, Teresa Coriolano e Angela Teresa Muratori.[3] Formate direttamente da Elisabetta presso "la sua scuola" – secondo la definizione di contemporanei come il suo diletto mecenate e agente, il marchese Ferdinando Cospi [4] – o influenzate dal suo esempio pionieristico – ed è probabilmente il caso di Muratori –, tutte queste giovani si diedero all’arte da professioniste riconosciute a Bologna e in tutta Italia.[5]           

Nonostante la precocissima e inattesa scomparsa – morì a 27 anni –, Elisabetta ebbe modo di ultimare oltre 200 tele, quindici stampe e innumerevoli disegni e acquarelli nell’arco di una carriera durata poco più di un decennio (1654-65). La media si attesta dunque sulle venti tele all’anno, produzione non comune per qualsiasi artista. Oltre a dar prova di un’arte sorprendentemente prolifica, Elisabetta non ebbe rivali nella rapidità esecutiva ("facilità"), conseguendo la fama di pittrice ritrattista in grado di completare un busto in una seduta. Elisabetta fu pertanto ritenuta una virtuosa tardo barocca di sommo talento, ammirata per la sua bravura tecnica e la maestria artistica.           

Per mettere a tacere le dicerie volte a screditare l’idea che una donna come lei avesse mai potuto realizzare in concreto tutti i quadri recanti la sua firma, Elisabetta concesse ai committenti di assistere alle sue sedute di pittura nel proprio studio, col chiaro intento di puntare sull’autopromozione. Teneva inoltre un registro delle sue pitture e delle stampe sotto forma di diario di lavoro o Nota delle pitture fatto da me Elisabetta Sirani, alla cui pubblicazione provvide in seguito Malvasia nell’ambito del proprio scritto Felsina Pittrice, del 1678.[6] L’estremo rilievo di questo diario come fonte primaria emerge dal fatto che,  a quanto ci consta, prima di Elisabetta nessuna artista donna aveva mai tenuto un simile registro della propria opera. Tale documento ci permette di definire spettro e portata della sua produzione artistica, e ciò grazie alla cura con cui Elisabetta descrive ogni singola commissione col relativo soggetto, indicando il mecenate per conto del quale realizzava questo o quel dipinto. Fornisce inoltre ragguagli di rilievo sia sull’attività quotidiana presso la bottega Sirani sia sulla prassi artistica di Elisabetta, illustrando idee e concetti alla base delle sue opere molteplici e multiformi.           

All’apice della maturità creativa, fra il 1662 e il 1664, Elisabetta aveva raggiunto il profilo di una delle personalità artistiche più importanti e ricercate di Bologna. Tutti volevano acquisire un’opera dipinta da questa donna talentuosa, al punto che l’enorme fascinazione esercitata dai suoi lavori – pitture, stampe o disegni che fossero – coinvolse ogni rango della società bolognese: dagli ambienti mercantili, commerciali, professionali e intellettuali alle élite aristocratiche, ecclesiastiche e politiche. L’artista assurse inoltre a una fama internazionale che, incensata dai vertici di monarchie e diplomazie, percorse l’Italia e l’Europa in lungo e in largo. I Medici di Firenze, per esempio, si distinsero come suoi fautori; ma furono in primo luogo le donne del casato a favorirne il successo oltre confine: Margherita de' Medici, promovendo la sua Madonna col Bambino, Santa Elisabetta e Santa Margherita (San Lorenzo in Fonte, Roma) e Vittoria della Rovere, promovendo il celebre Amorino Trionfante (Bologna, Collezione privata), opere entrambe del 1661, la seconda delle quali destinata come dono di nozze per la nuora di Vittoria, la Principessa di Francia Marguerite-Louise d'Orléans. Ispirato dall’esempio di queste due donne, il principe Leopoldo de’ Medici, fratello di Margherita e grande collezionista, avrebbe in seguito commissionato la sua Allegoria del buon governo dei Medici – Giustizia, Carità e Prudenza (1664, Comune di Vignola).

 

Capomaestra della Bottega Sirani          

Prova certa del lustro professionale conseguito da Elisabetta e dell’accoglienza a lei tributata dai vertici dell’ambiente artistico, saldamente in mano maschile, fu la sua promozione a professore dell’Accademia di San Luca in Roma.[7] Dal 1607, l’accademia romana si era aperta alle donne, che potevano accedervi in qualità di professore, ma senza il permesso di assistere alle riunioni (Statuto 20); il 1617 segnò la loro piena integrazione nelle attività istituzionali.[8] Il titolo di professore attribuiva a Elisabetta la dignità di "maestra", che le conferiva a sua volta la facoltà di dirigere da docente la propria bottega, accogliendo allieve e apprendiste, per le quali si faceva carico di vitto e quote d’iscrizione corporative. Sappiamo, in effetti, che Elisabetta giunse a capo della bottega a poco più di vent’anni, assumendo su di sé onori e oneri direttivi già propri di suo padre.           

Giovanni Andrea Sirani aveva guidato le sorti della sua casa da capofamiglia e quelle dell’omonima bottega di via Urbana a Bologna da "capomaestro".  Benché il suo nome suoni oggi meno noto di quello della più celebre e talentuosa figlia Elisabetta, Giovanni Andrea figurava all’epoca tra i personaggi chiave della Scuola bolognese. Dopo un tirocinio al fianco di Guido Reni – di cui fu l’assistente più stretto –, Sirani diresse in forma autonoma una bottega industriosa e prolifica, distintasi fra le più fortunate della Bologna secentesca e in seguito descritta da Luigi Crespi come "scuola fiorente".[9] Malvasia riconobbe in Giovanni Andrea – attivo come professore anche presso le accademie del disegno cittadine – uno degli insegnanti di maggior spicco che Bologna vantasse nell’arte della pittura e della stampa, "secondo a nessuno".[10] Fra i molteplici assistenti e apprendisti di Sirani compaiono le figlie Elisabetta, Barbara e Anna Maria, che sotto la sua guida furono avviate alla professione artistica, svolta da tutte e tre presso l’attività familiare. La sua produzione abbracciava uno spettro che, accanto a lussuose pale d’altare per la pubblica devozione, comprendeva dipinti storici ed opere per privati d’ispirazione religiosa o allegorica, ritratti e disegni di presentazione. Se i committenti di queste opere appartenevano all’élite ecclesiastico-nobiliare di Bologna e all’emergente borghesia mercantile, le stampe, gli opuscoli per la preghiera e i santini di Giovanni Andrea Sirani erano destinati ai laici del popolo, mentre i suoi frontespizi librari, le sue illustrazioni e modelli calligrafici a conclusione delle tesi avevano per acquirenti umanisti e intellettuali dell’università cittadina.         

Quanto accadde intorno al 1662 impresse una svolta nella vita dei Sirani e della loro casa e attività. Fu infatti allora che, da artista ormai affermata, Elisabetta assunse la direzione della bottega di famiglia all’indomani della grave infermità sopraggiunta al padre. L’artista ormai anziano soffriva di una gotta artritica responsabile di una forte distorsione alle mani. La prima menzione documentata della malattia di Giovanni Andrea Sirani si deve a una lettera che Pietro Antonio Davia spedì da Bologna a Messina all’indirizzo di Antonio Ruffo in data 19 giugno 1649, periodo a partire dal quale le condizioni dell’artista continuarono a peggiorare di anno in anno finché il pittore non fu più in grado di maneggiare i pennelli. Elisabetta s’incaricò di guidare gli apprendisti e gli assistenti del padre senza per questo abbandonare la docenza presso il suo istituto d’arte femminile.          

In quanto principale sorgente di reddito per i Sirani, a Elisabetta può essere a questo punto riconosciuto a pieno titolo il rango di capofamiglia – usurpate, per così dire, le prerogative tradizionali del patriarca, a un tempo maestro di bottega e signore della casa. L’unicità di un simile rovesciamento dei ruoli di genere emerge dalla mancata attestazione, a quanto è noto, di un’altra pittrice italiana che abbia diretto da insegnante una bottega con allievi maschi. Malvasia e Cospi riconoscono entrambi la sua levatura di “maestra”, affermando che i proventi derivanti dal richiestissimo lavoro di Elisabetta sostentavano la sua gente al completo: "la figliola la quale in oggi quì è ritenuta maestra et è lei che mantiene con sua lavori tutta la sua numerosa famiglia"[11] .Col denaro guadagnato apprendiamo dai documenti che l’artista, oltre a pagare le lezioni di musica per sé, acquistava beni utili alla casa e faceva fronte alle spese mediche per la madre, il fratello e le sorelle. Come Malvasia ebbe a scrivere, i compensi ricevuti da Elisabetta ad honorarium (consistenti, perlopiù, in gioielli preziosi) servivano "a comun beneficio della Casa",[12] – la quale, come ho avuto modo di trattare altrove, comprendeva non solo i nove membri dell’ampia famiglia Sirani con relativa servitù, ma anche gli apprendisti e gli assistenti di bottega, che a tratti erano più di una ventina.[13] Lo statuto corporativo degli artisti di Bologna affidava al "capomaestro" il compito di provvedere alla copertura non solo degli stipendi di apprendisti e assistenti di bottega ma anche delle loro quote associative d’iscrizione.[14]. A ciò si aggiungeva la necessità di garantire il vitto durante la loro attività lavorativa presso la bottega Sirani, la "Capomaestra" della quale, oltre a conseguire un ampio grado d’indipendenza, giunse, anche in quanto capo della propria famiglia, a dover sostenere il carico economico, materiale e morale di quella dinastia di artisti.        

Essere nata per prima impose a Elisabetta la responsabilità accessoria della primogenitura, configurando un ulteriore aspetto del già citato rovesciamento dei ruoli sessuali. Sandra Cavallo ha posto in rilievo gli obblighi finanziari che il fratello maggiore era tenuto a onorare nelle famiglie di artigiani nei confronti dei più giovani di entrambi i sessi.[15] Nel caso dei Sirani, benché donna, Elisabetta si ritrovò insignita di quel duplice ruolo di capofamiglia e capomaestra che, oltre a consentire alle due sorelle minori di concludere con lei il tirocinio fino alla maturità e all’autonomia artistico-professionale, permise al fratello Antonio Maria (nato nel 1649) di godere, dal 1664, del supporto necessario a diventare discepolo dell’illustre accademico Luigi Magni, conseguendo alla fine del percorso – nel 1670 – la laurea in Medicina e Filosofia dell’Università di Bologna.         

Dirigere la bottega Sirani significò per Elisabetta presiedere non solo l’attività familiare, rispetto alla quale il padre fungeva da agente, ma anche la casa in quanto tale, mantenendo la numerosa famiglia con i proventi del proprio lavoro. Per una donna dell’epoca, si trattava di una situazione del tutto eccezionale; la norma riconosceva infatti ai soli uomini la dignità di capofamiglia e responsabili del sostentamento collettivo. La morte di Elisabetta, spentasi all’improvviso nel fiore della giovinezza, fece sprofondare il padre nella più cupa prostrazione. La cosa non sorprende: sopraffatto senza dubbio dal dolore di un simile lutto, con la figlia l’uomo perdeva anche l’asse portante dei propri affari. Giovanni Andrea dovette quindi riassumere le vesti di capomaestro della bottega Sirani, che riprese a dirigere con l’ausilio di Lorenzo Loli e delle due figlie che ancora gli restavano, Barbara e Anna Maria.

 

Soggetti e integrazioni all’opera di Elisabetta       

La popolarità di Elisabetta Sirani, la sua affermazione professionale e il plauso critico di cui godé fra i contemporanei posero le basi della sua fortuna tra i posteri, consolidandone il rilievo nella storia dell’arte e il contributo alla rielaborazione di tradizioni artistiche preesistenti. La sua mirabile forza inventiva e innovativa si espresse nell’ideazione di un repertorio tematico inedito e inconsueto, la cui unicità contenutistica si rifletteva in scelte iconografiche improntate al ritratto di eroine tratte dalla Bibbia e dalla storia del periodo classico (le cosiddette "femmes fortes" – donne tenaci e coraggiose come Giuditta, Dalila, Porzia, Timoclea, Artemisia (fig. 4), Cleopatra, Circe, Iole o Panfila). In questi dipinti storici Elisabetta diede vita a eroine che, col loro piglio indomito e volitivo, vantano le virtù positive dell’acume, dell’ardimento e del valore trionfante. L’artista approfondì le gesta di queste energiche figure storiche, fondando la preparazione delle tele che le ritraggono, da un lato, sulla lettura dei testi e dei manuali antichi – senza scordare la Bibbia – di cui abbondava la vasta biblioteca del padre, dall’altro, sullo studio delle fonti illustrate comprese nella collezione d’arte della famiglia Sirani.[16]

Un esempio recentemente ritrovato di questa ideale femme forte è la Cleopatra di Elisabetta (1664), attualmente parte di una collezione privata italiana (fig. 5); il quadro evidenzia i meriti virtuosistici dell’artista e la sua bravura tecnica, apprezzabili nella vivida orchestrazione cromatica e nel pronunciato chiaroscuro. La cura profusa da Elisabetta nel calibrare la luce che colpisce radente l’incarnato scoperto di Cleopatra (il seno, il braccio, il volto) è accompagnata dall’attenzione con cui è colto lo scintillio della coppa di vetro nella destra della regina e del vaso sul lato destro dello sfondo. La maestria di Elisabetta e il suo dominio del colore e del pennello (abilità per le quali era considerata una “virtuosa del pennello” dai suoi contemporanei) emergono fra l’altro dal dono di riprodurre la trasparenza del vetro con tanta efficacia realistica. Con bellezza e con grazia sono anche rese le mani di Cleopatra, colte in posa elegante nell’atto di sostenere la grande perla barocca (uno dei suoi orecchini), e la conca in cui sta per gettarla. Il braccio destro mostra un "pentimento", una traccia dei ritocchi compositivi apportati talora dall’artista in corso d’opera. La fama di Elisabetta crebbe attorno a queste raffigurazioni iconiche di donne di valore, nelle quali la pittrice celebra l’immagine nobilitata dell’eroina, che spicca in termini tematici e visivi, spesso offuscando del tutto l’"eroe" maschio secondo il cui parametro avevano finito col definirsi gli stessi contorni dell’identità femminile – in questo caso, l’amante di Cleopatra, il generale romano Marco Antonio, brilla ad esempio per la propria assenza.        

Il modo innovativo in cui Elisabetta interpreta queste femmes fortes trova riscontro anche nel suo modo pittorico che i suoi contemporanei definirono virile, “da gran maestro”. Malvasia si spinse infatti ad affermare che il suo stile pittorico era "più che da uomo", maschio e sontuoso ("ebbe del virile e del grande").[17] Elisabetta fu insomma una delle prime a vedersi pubblicamente insignita da colleghi e critici del nome di "virtuosa", detentrice di quel genio creativo e di quell’"invenzione" che da Aristotele in poi erano ritenuti fuori dalla portata di una donna. Fu inoltre una delle rare personalità artistiche bolognesi a firmare le proprie opere; in un’epoca contraddistinta dalla scarsa rilevanza giuridica della firma apposta da donne, la pittrice elabora quindi ingegnosi espedienti per rivendicare la propria identità e autorità sul piano professionale, artistico e sociale. Perseguì questo fine “ricamando” il proprio nome su fregi d’abito, risvolti, scollature o intrecci e fiocchi a ornamento di cuscini, ovvero incidendolo sugli elementi architettonici delle sue tele e conferendo alla sua firma una foggia spesso in stretta attinenza col contenuto e il messaggio delle immagini che realizzava.[18]     

Elisabetta era anche rinomata come esecutrice di ritratti allegorici di rappresentanza, vale a dire effigi dell’aristocrazia bolognese quale incarnazione di un concetto mitico, religioso o più diffusamente astratto; è il caso, ad esempio, della contessa Anna Maria Ranuzzi Marsigli ritratta come la Carità (Bologna, Fondazione Ca.ris.bo, 1665), di Vincenzo Ferdinando Ranuzzi in veste di Cupido (Varsavia, Muzeum Narodowe, 1663) e di Ortensia Leoni Cordini ritratta come Santa Dorotea (Madison, Chazen Museum of Art, 1661). Realizzò pure autoritratti allegorici come La Musica (Fort Worth, collezione privata, 1659) e La Pittura (Mosca, Muzej Puškina, 1658). Di recente ingresso nel suo catalogo è l’Autoritratto della pittrice in atto di dipingere un ritratto del padre (San Pietroburgo, Ermitage, circa 1665, fig. 6), a lungo ritenuto scomparso, in una delle due versioni compiute da Elisabetta per conto delle famiglie Hercolani e Polazzi.[19] Quella dell’Ermitage ritengo sia la versione di cui Malvasia testimonia la presenza a Palazzo Polazzi negli anni ’70 del XVII secolo e che nel XVIII risulta parte della collezione Boschi, mentre la variante Hercolani fu esibita al funerale pubblico di Elisabetta.[20]        

A quanto riporta Malvasia, i dipinti di Elisabetta raffiguranti la Vergine e il Bambino e quelli incentrati sulla Sacra Famiglia offrono alcuni dei più incantevoli e straordinari esempi di pittura mariana a lei coeva – rappresentando, fra l’altro, per l’artista, la vera fonte stabile di reddito[21]. Tali opere erano note come "quadretti da letto", pitture di formato ridotto a uso devozionale privato concepite per la meditazione e la preghiera. Il genere è dominato da immagini dell’intimità e dell’affetto, in cui lo scambio emotivo tra madre e figlio è affidato a reciproci sguardi intrisi di dolcezza e a un gioco gestuale fatto di mani in tenera corrispondenza (Madonna della Rosa, 1664 – collocazione ignota –, Madonna del Cuscino, 1665, Bologna, collezione privata), espressione, secondo Vera Fortunati, di un’autentica "teologia in lingua materna"[22]. L’elemento di cui Elisabetta infuse le sue opera fu appunto un’adesione sentimentale scaturita dalla profonda empatia dell’artista verso il proprio soggetto.           

Questa sentita intimità femminile affiora tuttavia anche nell’approccio alla santità maschile; è il caso di dipinti come Sant’Antonio da Padova in adorazione del Bambino (Bologna, Pinacoteca Nazionale,1662) e il finora inedito San Giuseppe, appartenente a una collezione privata italiana (fig. 7).  Quest’ultima opera può essere ricondotta alla fase centrale della carriera di Elisabetta, quando la pittrice aveva perfezionato con successo le proprie commissioni a tema religioso destinate alla devozione privata dell’aristocrazia bolognese. La Controriforma, così come intesa nel Discorso intorno alle immagini sacre e profane dell’arcivescovo di Bologna Gabriele Paleotti (edito nel 1582), alimentò la richiesta di immagini sacre volte a ispirare la devozione dei fedeli; in questo contesto, Elisabetta ebbe modo di rifornire le dimore private cittadine con scene meravigliosamente rese della Sacra Famiglia o della Madonna col Bambino, suo punto di forza. Dopo la marginalità in cui Giuseppe era stato tradizionalmente relegato in quanto figura secondaria testimone dell’avvento di Cristo – e degna perlopiù di una timida apparizione in ombra o sullo sfondo di un quadro –, la Controriforma rivalutò la centralità della sua figura nel piano divino. La Sacra Famiglia assunse all’epoca il profilo di un importante tema iconografico e nel XVII secolo numerosi furono i dipinti raffiguranti San Giuseppe, da solo o accanto a Gesù Bambino. L’origine di tale tendenza va ricercata soprattutto negli scritti di Teresa d’Ávila, che in Giuseppe trovò il suo protettore celeste; a lui consacrò infatti il nuovo convento dei Carmelitani Scalzi,  da lei fondato ad Ávila nel 1562 per promuovere il culto di San Giuseppe nel volgere di quegli anni. Nel suo Libro de la vida, Santa Teresa descrive come le apparve la Sacra Famiglia e come in quella visione Maria e Giuseppe le avessero fatto indossare un candido manto lucente e una collana d’oro recante una croce.[23]

Elisabetta elegge appunto a protagonista del dipinto il santo, il cui ruolo centrale di padre terreno è colto nella venerazione da lui tributata al Bambinello, che cinge in un abbraccio affettuoso e protettivo. Cristo siede su un cuscino blu sul piano di un tavolo e, circondato dal braccio sinistro di Giuseppe, si protende a ricevere il garofano rosa che il santo gli porge con la mano destra, ritratta dall’artista con pari garbo ed eleganza. Nel 1664, Elisabetta avrebbe riprodotto lo stesso soggetto in un’altra versione (ora alla Pinacoteca di Faenza), nella quale si riscontra la medesima resa scultorea delle pieghe del mantello giallo di Giuseppe, che avvolge padre e figlio in un assetto cromatico similmente orchestrato. Un’altra opera paragonabile al dipinto è la cosiddetta Sacra Famiglia delle ciliegie (Milano, collezione privata, 1662), ultimata da Elisabetta verso lo stesso periodo. In questa Sacra Famiglia, la testa del santo è pressoché identica  a quella del nostro San Giuseppe inedito, coincidenza di per sé indicativa dell’utilizzo da parte di Elisabetta dello stesso modello e degli stessi schizzi preparatori per entrambe le pitture.[24]

 

Conclusioni           

Rimasta nubile e svolgendo pertanto da sola la propria attività di artista, Elisabetta Sirani offrì un contributo essenziale alla professionalizzazione della prassi artistica femminile nell’Italia della prima età moderna. Il suo lascito consiste nell’aver dischiuso vie alternative all’istruzione destinata alle donne, aprendo la sua bottega a fanciulle che – nate spesso in famiglie di artisti, ma, talora, anche in ambienti nobiliari – intendevano avventurarsi nel campo delle arti figurative. Incarnando nella sua vita la versione femminile dell’artista professionalmente attivo, del maestro e dell’insegnante, Elisabetta propose un’alternativa radicale al modello del mentore maschile consolidato nell’educazione artistica. Con lei, la trasmissione del sapere attraverso l’apprendistato artistico passa infatti dalla classica successione maschio-maschio/maschio-femmina a uno schema matrilineare atto a tramandare il patrimonio professionale e le conoscenze tecniche e culturali su iniziativa e ad opera non più solo ed esclusivamente degli uomini, ma anche delle donne. Bologna si dimostrò terreno particolarmente fertile per simili evoluzioni, forte di una tradizione umanistica segnata da docenti universitarie, scrittrici, editrici, ma anche pittrici e scultrici. La Nostra rappresenta l’epitome di questa ricca eredità culturale.  Elisabetta Sirani, "Virtuosa del Pennello" personifica quindi l’“exemplum” dell’artista donna che esercita con successo la propria professione nell’Italia del Nord. La sua prassi pittorica e non solo assume infatti valore paradigmatico rispetto alla produzione culturale realizzata dalle donne della sua epoca, come emerge dalla durevole risonanza generale di un contributo che avrebbe largamente influenzato gli sviluppi della pittura bolognese nella seconda metà del secolo XVII.

 

Note

[1] A cura di Roberta Aliventi e Laura Da Rin Bettina, sotto il coordinamento accademico di Marzia Faietti, 6 marzo - 10 giugno 2018.

[2] Malvasia-Arfelli 1961, p. 105.

[3]  Malvasia (1678) 1841, II, p. 407.

[4] In una lettera al principe Leopoldo de’ Medici spedita da Bologna il 27 gennaio 1665, ASF, Mediceo del Principato 5532, filza 35, fol. 298r.

[5] In merito alle allieve di Sirani, cfr. Graziani 2004; Modesti 2014, pp. 67-79.

[6] Malvasia (1678) 1841, II, pp. 393-400.

[7] Ghezzi 1696.

[8] Missirini 1825, p. 83 e appendice.

[9] Crespi 1769, p. 73.

[10] Malvasia (1678) 1841, II, p. 407:"nell’insegnare ancora ha pochi uguali".

[11] Cospi a Leopoldo de’ Medici, lettera datata 19 agosto 1662, ASF, Carteggio degli Artisti XVI, fol. 34.

[12] Malvasia (1678) 1841, II, p. 400.

[13] Modesti 2013, pp. 47–64.

[14] Si veda Statuti 1670, soprattutto i capp. XI, XII, XIII. BCABo, MS B 2443.

[15] Cavallo 2009, pp. 327-350. Si veda anche Cavallo 2010, pp. 1-13.

[16] In merito alla biblioteca e alle collezione d’arte Sirani, cfr. Sabatini 1995; Modesti 2014, pp. 93-96, 101-105, 113-115.

[17] Malvasia (1678) 1841, II, pp. 386, 402.

[18] Nelle mie pubblicazioni sull’artista, ho discusso diffusamente del modo strategico in cui Elisabetta si serve della propria firma: per es., Modesti 2004, pp. 20-22. Si veda, anche, Bohn 2004, pp. 107-117.

[19] Per una discussione in materia, cfr. Modesti 2014, pp. 11-12. Il dipinto di San Pietroburgo fu pubblicato per la prima volta da Sokolova 2012.

[20] Malvasia (1678) 1841, II, indice, p. cx: "Ritratto della Sirana, che mostra di dipingere il padre in un quadro di mano del detto suo padre, e, di questi da lei dipinto in un solo quadro appresso il Polazzi".

[21] Malvasia, (1678) 1841, II, pp. 400–01.

[22] Fortunati 2004, pp. 21, 26-27.

[23] Per conto del gioielliere cremonese Gabriele Rizzardi, Elisabetta dipinse di propria mano una Sacra Famiglia con Santa Teresa nel 1664 (fig. 1). Sull’iconografia controriformistica, cfr. Mâle 1984.

[24] Alcuni disegni preliminari per la Sacra Famiglia si trovano agli Uffizi, esposti nell’ambito della mostra Dipingere e disegnare “da gran maestro”: il talento di Elisabetta Sirani (Bologna, 1638-1665) al Gabinetto di Disegni e Stampe (6 marzo - 10 giugno 2018). 

 

 

Bibliografia

Fonti primarie

ASF, Carteggio degli Artisti XVI.

ASF, Mediceo del Principato 5532, filza 35.

Crespi 1769: L. Crespi, "Vita di Giovanni Andrea Sirani", in L. Crespi, Felsina Pittrice: vite de’ Pittori Bolognesi tomo terzo, Roma 1769, pp. 69-74.

Ghezzi 1696: “Catalogo delle Donne Pittrici, ed Accademiche di Honore, come di Merito, dell’Insigne Accademia S. Luca di Roma”, in Il Centesimo dell’anno 1695 celebrato in Roma dall’Accademia del Disegno essendo prencipe il signor cavalier Carlo Fontana architetto. Descritto da Giuseppe Ghezzi pittore, e segretario accademico, Roma 1696.

Malvasia (1678) 1841: C. C. Malvasia, Felsina Pittrice. Vite de' Pittori Bolognesi (Bologna 1678), a cura di G.P. Zanotti e altri, 2 voll., Bologna 1841.

Malvasia-Arfelli 1961: C. C. Malvasia, Vita dei pittori bolognesi: appunti inediti, a cura di A. Arfelli, Bologna 1961.

Missirini 1825: M. Missirini, Memorie per servire alla Storia della Romana Accademia di San Luca, Roma 1825.

Statuti 1670: Statuti della Compagnia de’ Pittori di Bologna, Bologna 1670 (BCABo, MS B 2443).

Fonti secondarie

Bohn 2004: B. Bohn "Il fenomeno della firma", in Elisabetta Sirani 'pittrice eroina' 1638-1665, catalogo della mostra, a cura di J. Bentini and V. Fortunati, Bologna 2004, pp. 107-117.

Cavallo 2009: S. Cavallo, "Le emancipazioni. Una fonte per lo studio dei rapporti famigliari intra e inter-generazionali", in Famiglia e poteri in Italia tra Medioevo ed Età Moderna (XIV-XVII Secoli), a cura di A. Bellavitis and I. Chabot, Roma 2009, pp. 327-350.

Cavallo 2010: S. Cavallo, "Family Relationships", in A Cultural History of Childhood and Family, vol. 3 The Early Modern Age, ed. by S. Cavallo and S. Evangelisti, Oxford and NY 2010, pp. 1-13.

Fortunati 2004: V. Fortunati, "Frammenti di un dialogo nel tempo: Elisabetta Sirani e le donne artiste", in Elisabetta Sirani 'pittrice eroina' 1638-1665, catalogo della mostra, a cura di J. Bentini and V. Fortunati, Bologna 2004, pp. 19-39.

Graziani 2004: I. Graziani, "Il Cenacolo di Elisabetta Sirani", in Elisabetta Sirani 'pittrice eroina' 1638-1665, catalogo della mostra, a cura di J. Bentini and V. Fortunati, Bologna 2004, pp. 119-133.

Mâle 1984: E. Mâle, L’Art Religieux du XVII siècle, seconda ed., Paris 1984.

Modesti 2004: A. Modesti, Elisabetta Sirani: Una virtuosa del Seicento bolognese, Bologna 2004.

Modesti 2013: A. Modesti, "‘A Casa con i Sirani': A Successful Family Business and Household in Early Modern Bologna", in The Early Modern Domestic Interior 1400–1700: Objects, Spaces, Domesticities, ed. by E. J. Campbell and others, Farnham 2013, pp. 47–64.

Modesti 2014: A. Modesti, Elisabetta Sirani 'Virtuosa': Women's Cultural Production in Early Modern Bologna, Turnhout 2014.

Sabatini 1995: S. Sabatini, ‘Per una storia delle donne pittrici bolognesi: Anna Maria Sirani e Ginevra Cantofoli’, Schede Umanistiche, 2 (1995), pp. 83-101.

Sokolova 2012: I. Sokolova "Una nuova attribuzione al Museo Statale Ermitage", in La pittura italiana del Seicento all'Ermitage. Ricerche e riflessioni, a cura di Francesca Cappelletti e Irina Artemieva, Firenze 2012, pp. 13-23.

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