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Il racconto della Pasqua

  • Il racconto della Pasqua

    La Passione, la Morte e la Resurrezione di Gesù attraverso le opere delle Gallerie degli Uffizi

    Il racconto della Pasqua
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    Introduzione

    Perché Dio ha amato tanto il mondo da dare il suo unico Figlio, perché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna. Dio non ha mandato suo Figlio sulla terra per condannare il mondo, ma per salvarlo (Giovanni 3, 16-17).

     

    Ogni anno con la Pasqua i Cristiani celebrano la Resurrezione di Cristo, ovvero il trionfo della Vita sulla Morte, promesso da Gesù nel corso della sua predicazione. E’ il momento conclusivo dell’intero ciclo della Passione, il più commovente e drammatico del racconto evangelico, una parabola che passa, in una escalation di sofferenza fisica e psicologica, attraverso il tradimento, la tortura, la derisione, la mortificazione e il pubblico ludibrio, infine la morte: l’estremo sacrificio che, secondo la tradizione cristiana, salva l’uomo da tutti i peccati.

    La narrazione inizia con una delle immagini più note della vicenda di Gesù, la riunione con gli Apostoli per l’Ultima Cena, durante la quale egli rivela che presto uno di loro lo tradirà: è Giuda che, in cambio del denaro offertogli dai sacerdoti, lo fa catturare dalle guardie romane nel corso di quella stessa notte, trascorsa da Gesù in solitudine nell’orto del Getsemani. Gesù viene processato davanti al Gran Consiglio prima e Ponzio Pilato poi, e in seguito flagellato, deriso dalla folla e crocifisso insieme a due ladroni sul monte Gòlgota. Muore infine tra atroci sofferenze, vegliato fino all’ultimo da Maria, sua madre, da Giovanni, il suo prediletto tra i discepoli e la fedele Maddalena.

    Deposto dalla croce, viene avvolto in un sudario e portato al sepolcro dal quale risorgerà trionfante al trascorrere di tre giorni.

    Questa lunga narrazione è stata tradotta visivamente nel corso dei secoli in una serie di scene di grande impatto emotivo, accomunate da un messaggio di fede collettivamente condiviso. Su tutte domina però il Crocifisso, ormai arreso alla morte. E’ una tra le immagini più potenti della storia, autentica e al tempo stesso rivoluzionaria. Non solo perché evoca una realtà storica, ma anche per il suo racchiudere l’essenza stessa dell’uomo: la fragilità, la solitudine, la capacità di amare e generare vita e speranza. Gli artisti  hanno raffigurato Cristo in Croce in molti modi: patiens o triumphans ( sofferente o vittorioso) come nelle grandi croci issate al centro delle chiese medievali; atletico e perfetto nelle proporzioni del pensiero rinascimentale e barocco; stilizzato negli occhi di tanta arte contemporanea. E in ogni tempo, anche per coloro che non sono credenti, l’imponenza di quel corpo nudo, martoriato e solo di fronte alla fine, ispira riflessione e rispetto.

    La carrellata di opere attinge all’immenso patrimonio artistico delle Gallerie degli Uffizi (Uffizi, Galleria Palatina e  Galleria d’Arte Moderna), e abbraccia i secoli dal Trecento all’Ottocento; vi proponiamo artisti italiani e stranieri più noti (come Rogier Van Der Weyden, Tiziano e Rubens) e meno noti al grande pubblico (quali Agnolo Gaddi, Luca Signorelli e Ludovico Cardi detto il Cigoli) e vi invitiamo a “leggerle”, insieme ai brani tratti dai Vangeli, ripercorrendo gli episodi salienti dell’ultima parte della vita di Cristo, in un percorso che evidenzia quanto la produzione artistica sia stata in larga parte collegata alla religione per trasmettere, attraverso i caratteri più toccanti e poetici della fede, messaggi di sacrificio, sopportazione delle pene, speranza e aspirazione alla vita eterna.

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    Leandro Bassano

    Ultima Cena

    Ultimo decennio del XVI secolo

    Olio su tela, 92 x 135 cm

    Galleria Palatina di Palazzo Pitti, Sala della Giustizia

     

    Ora, mentre essi mangiavano, Gesù prese il pane e, pronunziata la benedizione, lo spezzò e lo diede ai discepoli dicendo: «Prendete e mangiate; questo è il mio corpo». Poi prese il calice e, dopo aver reso grazie, lo diede loro, dicendo: «Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell'alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati. Io vi dico che da ora non berrò più di questo frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre mio» (Matteo 26, 26-29).

     

    Giunto a Firenze da Urbino con la ricca dote di Vittoria Della Rovere nel 1631 per il matrimonio con Ferdinando II, il dipinto ha per soggetto l’Ultima Cena di Cristo, che consacra pane e vino, preannunciando il suo sacrificio sulla Croce per espiare i peccati dell’umanità. Infatti, se l’uno allude al suo sangue, l’altro invece simboleggia il suo corpo.

    Intorno alla mensa siedono i discepoli, ognuno dei quali caratterizzato in modo molto preciso nella gestualità e nei volti, dai quali il pittore fa trasparire in modo evidente una tensione drammatica dovuta al profetico annuncio del tradimento.

    Caratteristica della bottega dei Bassano è quella di far dialogare elementi a loro contemporanei, come l’impostazione architettonica degli ambienti, gli arredi o la presenza di figure secondarie, con altri tratti dalla rappresentazione tradizionale degli Apostoli e di Cristo, come le lunghe tuniche dei dodici.

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    Leandro Bassano

    La scena è ambientata all’interno di una stanza tardo rinascimentale in cui si intravede, a destra sullo sfondo, una cucina, con pentoloni e stoviglie nella dispensa ed una cuoca intenta a domare il fuoco. Alle spalle della tavola, si apre una finestra da cui si scorge un paesaggio montano.

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    Leandro Bassano

    Bassano in questo dipinto gioca particolarmente sul rapporto tra elemento sacro e profano, tra immagini di quotidianità e altre cariche di un valore simbolico.

    Molti dettagli di genere conferiscono la parvenza di un’atmosfera quotidiana, come segnalato dalla presenza di alcuni soggetti: l’uomo sulla sinistra che scosta la tenda, il cane e il gatto acquattato in primo piano, il primo intento a sorvegliare cosa sta accadendo e l’altro invece anelante la caduta di qualche briciola; infine il servitore moretto di origine africana con il piatto in mano.

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    Leandro Bassano

    A ribadire l’importanza dell’elemento simbolico, sulla mensa, si può notare la presenza più volte ripetuta del pane, accanto a ciascuno dei commensali, riferita al momento dell’istituzione della celebrazione eucaristica.

    Giuda sta per toccare il piatto con l’agnello - in riferimento al sacrificio di Cristo sulla Croce - immagine pasquale per eccellenza che allude alla preghiera dell’Agnus Dei.

    Inoltre, l'apostolo traditore si porta una mano lungo il costato, dove nasconde la borsa di 30 denari che aveva ricevuto dalle autorità del Sinedrio per la consegna di Cristo.

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    Pietro Perugino

    Cristo nell’orto degli Ulivi

    1492

    Olio su tavola, 166 x 171 cm

    Uffizi, Galleria delle Statute e delle Pitture, Sala 27

     

    Giunsero intanto a un podere chiamato Getsèmani, ed egli disse ai suoi discepoli: «Sedetevi qui, mentre io prego». Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e cominciò a sentire paura e angoscia. Gesù disse loro: «La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate». Poi, andato un po’ innanzi, si gettò a terra e pregava che, se fosse possibile, passasse da lui quell'ora. E diceva: «Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu» (Marco 14, 30-34).

     

    L’episodio evangelico illustrato in questo dipinto si riferisce alle ore seguenti all’Ultima Cena. Il brano è uno dei più commoventi del racconto della Passione: Gesù sofferente si ritira a pregare, cercando la compagnia e il conforto dei tre apostoli che tuttavia si addormentano lasciandolo solo. Il pittore enfatizza questo stato di solitudine e prostrazione collocando Cristo al centro, inginocchiato sopra uno sperone roccioso, in dialogo silenzioso con l’angelo che gli porge il calice della passione.

    La disposizione delle figure su diversi piani, l’uso di toni cromatici sapientemente modulati, dai colori più accessi e decisi in primo piano fino agli effetti più sfumati dello sfondo, contribuiscono a definire la costruzione prospettica del quadro, incentrata sulla struttura piramidale di Cristo e degli Apostoli ai suoi piedi.

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    Pietro Perugino

    Sullo sfondo si apre un silenzioso paesaggio lacustre, ispirato alla dolcezza un po’ rustica delle colline umbre, insieme alla veduta di una città dai caratteri quattrocenteschi, che rappresenta idealmente Gerusalemme. L’atmosfera così concentrata viene interrotta dall’animato gruppo di soldati accorsi a catturare Cristo, guidati da Giuda che lo indica con un gesto deciso.

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    Pietro Perugino

    Il dipinto fu eseguito per la chiesa di San Giusto a Firenze. Quando questa venne distrutta nel 1529 durante l’assedio della città, passò alla chiesa di San Giovannino della Calza e da lì alla Galleria dell’Accademia, per poi giungere definitivamente agli Uffizi nel 1919.

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    Antonio Ciseri

    Ecce Homo!

    1891

    Olio su tela, 380 x 292 cm

    Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti, Sala 14

     

    Il governatore era solito, per ciascuna festa di Pasqua, rilasciare al popolo un prigioniero, a loro scelta. Avevano in quel tempo un prigioniero famoso, detto Barabba. Mentre quindi si trovavano riuniti, Pilato disse loro: "Chi volete che vi rilasci: Barabba o Gesù chiamato il Cristo?". Sapeva bene infatti che glielo avevano consegnato per invidia. Mentre egli sedeva in tribunale, sua moglie gli mandò a dire: "Non avere a che fare con quel giusto; perché oggi fui molto turbata in sogno, per causa sua". Ma i sommi sacerdoti e gli anziani persuasero la folla a richiedere Barabba e a far morire Gesù. Allora il governatore domandò: "Chi dei due volete che vi rilasci?". Quelli risposero: "Barabba!". Disse loro Pilato: "Che farò dunque di Gesù chiamato il Cristo?". Tutti gli risposero: "Sia crocifisso!" (Matteo 27,15-22).

     

    Con uno spiccato gusto per l’antichità e l’esotismo, Antonio Ciseri ricostruisce l’ambientazione dell’episodio evangelico, collazionando elementi eterogenei come la Colonna Antonina, di cui il pittore possedeva una fotografia e che nel dipinto testimonia la dominazione romana sulla Giudea ai tempi di Cristo, e un monumentale edificio che può suggerire un tempio esemplato su architetture egizie: il tutto a rievocare in maniera suggestiva, ma non certo filologica, spazi urbani di un lontano altrove geografico e storico. La scena ha un taglio inconsueto rispetto all’iconografia tradizionale: Cristo non viene presentato frontalmente, ovvero rivolto verso chi guarderà il dipinto così da stimolare la meditazione sul sacrificio dell’innocente, ma viene esposto dal balcone di Pilato al giudizio della folla, cogliendo la scena da “dietro le quinte”. L’episodio nello specifico prende ispirazione dal Vangelo secondo Matteo ma è trattato in maniera più estesa nella Vie de Jésus di Ernest Renan (1863), moderna cronaca delle vicende della vita di Gesù che suscitò grande clamore per la laicità dell’impostazione, e che fu una fonte per il lucido e appassionato racconto di Ciseri.

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    Antonio Ciseri

    La condanna di Gesù è narrata scegliendo il punto di vista della moglie di Pilato, Claudia Procula, la figura che sulla destra si appoggia alla giovane ancella: la donna in sogno aveva avuto la premonizione che il sangue di quel giovane mite intravisto nel cortile del palazzo, sarebbe stato versato ingiustamente, e aveva interceduto presso il marito affinché l’innocente venisse risparmiato.

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    Antonio Ciseri

    La realizzazione del dipinto fu lunghissima e coprì due decenni, avendo Ciseri ricevuto incarico ministeriale attraverso la fiorentina Accademia di Belle arti nel 1871: lo animò un’incontentabile acribia descrittiva nei confronti di un vero storico e umano, ancor prima che religioso, espresso nella meticolosa resa delle superfici e nell’organizzazione teatrale del racconto sotto i colpi di una luce abilmente orchestrata. Ecco emergere dalla penombra del primo piano le figure che si collocano sulla partitura geometrica del pavimento attorno al fulcro della scena che si colloca tra lo splendente manto di Pilato, trapassato dalla luce, e la commovente nudità di Cristo, risaltata dal rosso regale del manto sceso sui fianchi.

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    Antonio Ciseri

    Il contraltare cromatico dei blu delle vesti del questore (che a sinistra si appoggia al seggio) e del legato (che si volta verso la folla alla destra di Pilato), e del bronzo dorato del manto di Claudia, così come della preziosa pelliccia sullo scranno, sostengono la varietà, la veridicità e la ricchezza del racconto, oltre che dimostrare l’assoluta padronanza degli strumenti del mestiere da parte del pittore.

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    Tiziano Vecellio

    Ecce Homo

    1564-1566 ca.

    Olio su tela, 71 x 54,6 cm

    Galleria Palatina di Palazzo Pitti, Sala di Apollo

     

    Allora Gesù uscì, portando la corona di spine e il mantello di porpora. E Pilato disse loro: "Ecco l'uomo!" (Giovanni 19,5).

     

    Il titolo di quest'opera (Ecce Homo, che in latino significa “ecco l'uomo”) riprende le parole che, nel Vangelo di Giovanni, sono attribuite a Ponzio Pilato, governatore romano della Giudea. Egli le pronunciò presentando Gesù - flagellato e schernito dai soldati - ai Giudei radunati fuori dal Palazzo Pretorio. Alla frase di Pilato, i sacerdoti e le guardie invocarono la crocifissione, il governatore si lavò le mani per togliersi di dosso ogni responsabilità e consegnò definitivamente Gesù al suo destino. In questa immagine devozionale Cristo è raffigurato solitamente a mezzo busto, con i polsi legati strettamente da una corda e gli attributi “regali” che i soldati romani gli dettero per scherno, ridicolizzando la sua rivendicazione a “Re dei Giudei”: la corona di spine, il mantello porpora, in alcuni casi una canna a fingere uno scettro.

    E' proprio in questo modo che lo rappresenta Tiziano nella tela della Galleria Palatina, che a lungo è stata ritenuta una copia di bottega, per poi recentemente essere ricondotta sotto la paternità diretta del pittore veneto. A convincere è stata la notevole qualità esecutiva di questa figura che emerge dallo sfondo scuro in tutta la sua umile e silenziosa accettazione della sofferenza. Tiziano ci mostra un Cristo “vivo e vero” (per usare le stesse parole con cui Pietro Aretino descrive questo soggetto in una celebre lettera del gennaio 1548), in cui il realismo si manifesta esplicitamente nei lividi lasciati dalle percosse sul corpo seminudo e nei rivoli di sangue che scendono dalla fronte. Rispetto alle iconografie più tradizionali che ci presentano Gesù in posizione frontale con lo sguardo rivolto verso lo spettatore, l’artista sceglie una posizione di tre quarti con la testa reclinata sulla spalla (quasi ad appoggiarsi sulla canna) e gli occhi abbassati. Questo Cristo non ci guarda direttamente, eppure è di una forza espressiva eccezionale: riesce a comunicarci una muta esortazione a tollerare le pene che colpì fortemente anche lo stesso Aretino. Egli, infatti, scrisse che la presenza di tale soggetto in camera sua l'aveva trasformata da luogo di piacere e lussuria in un “tempio sacro e di Dio”, pervaso di preghiera e onestà cristiana.

    Il quadro fiorentino è una replica dell'opera che l'artista regalò al letterato toscano (identificata con una tela attualmente conservata al Museo Conde' di Chantilly), a sua volta rielaborazione di un altro dipinto inviato in dono all'imperatore Carlo V d'Asburgo (oggi al Museo del Prado di Madrid).

    Il nostro Ecce Homo sarebbe da identificare, dunque, con quello presente nel 1623-24 negli inventari della collezione di Francesco Maria II della Rovere, duca di Urbino, arrivato nel 1631 a Firenze con l’eredità di Vittoria (moglie di Ferdinando II de’Medici).

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    Tiziano Vecellio

    Nel volto di Cristo, incorniciato da una lunga capigliatura e da una folta barba, è racchiuso tutto il pathos di questo episodio sacro: egli sopporta con sommessa rassegnazione il dolore delle ferite aperte dalla corona di spine sulla fronte, da cui il sangue scende in gocce corpose a rigargli il viso e il collo. La pennellata pastosa di Tiziano, solitamente usata per infondere sensualità carnale ai suoi personaggi (soprattutto femminili), qui conferisce crudo realismo alla figura di Gesù.

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    Luca Signorelli

    Predella con Storie della Passione: Ultima Cena, Orazione nell’Orto e Cattura di Cristo, Salita al Calvario, Flagellazione

    1512-1520 ca.

    Olio su tavola, 32,5 x 204,5 cm

    Uffizi, Galleria delle Statue e delle Pitture, Sala 32

     

    Generalmente ritenuta parte integrante della Pala con la Vergine, la Trinità e i Santi Michele, Gabriele, Agostino e Atanasio risalente al 1513-1514 e anch’essa agli Uffizi, la predella è suddivisa in tre scomparti e la narrazione si sviluppa in ordine cronologico (da sinistra verso destra).

    Il primo episodio ad essere raffigurato è quello dell’Ultima Cena: gli apostoli appaiono sconvolti per l’annuncio da parte di Cristo del tradimento che uno di loro compirà contro di lui e reagiscono animosamente commentando la notizia tra di loro. Giovanni – come di consueto – poggia il capo sulla spalla di Gesù che tiene in mano l'ostia. L’unico davanti alla mensa è la figura statuaria di Giuda ritratto in piedi, distaccato dal gruppo.

    L’artista decide di inserire questa scena all’interno di una stanza pressoché asfittica e spoglia, in cui tutto concorre a concentrare l’attenzione dello spettatore sull’evento sacro.

    Nel secondo episodio Cristo si è ormai ritirato in preghiera nell’orto del Getsemani accompagnato da Pietro, Giacomo e Giovanni, a cui aveva suggerito di vegliare con lui perché conscio dell’arrivo imminente del traditore con i Giudei e le guardie romane. Nell’organizzazione spaziale, alla silenziosità del primo piano, occupato dalla figura di Cristo- completamente assorto in meditazione - e dai discepoli vinti dal sonno, si contrappone la rumorosità e la concitazione delle scene sullo sfondo: la cattura di Gesù e la salita al Calvario. Tutta la scena è inserita all’interno di un paesaggio campestre con montagne azzurro-grigiastre sullo sfondo.

    Particolarmente interessante è infine il terzo episodio, in cui viene raffigurata la Flagellazione alla presenza di Erode e dei componenti del Pretorio.

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    Luca Signorelli

    Particolare attenzione è rivolta dal Signorelli alle scene sullo sfondo, dove compaiono le truppe dei soldati guidati da Giuda, che baciando Gesù indicherà loro chi devono arrestare. Al centro della folla tumultuosa emerge l’episodio di Pietro che, per difendere Gesù dalla cattura, taglia con una spada l’orecchio di una guardia.

    Sulla destra dello sfondo viene illustrato il dettaglio della Salita al Calvario: Gesù, portando la croce sulla schiena, cade sotto il peso di essa. Alle sue spalle, nel corteo di soldati e cavalieri, si distinguono in particolare le Pie Donne, con la Vergine che, nell’impeto di seguire da vicino il figlio, rischia quasi di cadere. Sopra la folla compare un angelo in volo, che stringe tra le mani un calice, trasposizione figurativa del passo del Vangelo: “Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà». Gli apparve allora un angelo dal cielo a confortarlo” (Lc, 22, 42-43).

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    Luca Signorelli

    La scena si svolge in un interno anche in questo caso non descritto analiticamente ma volutamente lasciato molto semplice per dare massimo risalto alle figure. Al centro, Gesù è legato ad una colonna e fustigato da quattro sgherri di Erode, raffigurati nudi e descritti nei minimi dettagli anatomici. Questa caratteristica denuncia l’attenzione di Signorelli verso gli studi di Michelangelo sulla figura umana che si ritrovano in tante sue opere.

    Sulla sinistra si vedono due membri del Sinedrio caratterizzati dalle lunghe vesti, dai turbanti e dai sandali ai piedi mentre confabulano con un soldato. Sul lato opposto, Erode siede su un trono rialzato affiancato da due guardie.

    Interessante notare come qui si palesi l’alleanza tra i rappresentanti dei due poteri corrotti, quello più religioso dei Giudei sulla sinistra, e quello temporale del tetrarca a destra, uniti nella volontà di distruggere il nuovo credo spirituale, incarnato da Gesù che sopporta impassibile le torture.

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    Luca Signorelli

    Crocefissione con la Maddalena

    1490-1498 ca.

    Olio su tela, 249 x 166 cm

    Uffizi, Galleria delle Statue e delle Pitture, Sala 32

     

    Da mezzogiorno fino alle tre del pomeriggio si fece buio su tutta la terra. Verso le tre, Gesù gridò a gran voce: «Elì, Elì, lemà sabactàni?», che significa: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». […] Gesù, emesso un alto grido, spirò (Matteo 27, 45-50).

     

    In quest'opera colpisce subito la centralità della croce, che si erge imponente in mezzo ad uno spiazzo di terra delimitato da pianticelle di fragole e altri fiorellini meticolosamente raffigurati. Sulla cimasa si trova un cartiglio in cui si fa riferimento a Gesù, presentato come Re dei Giudei in tre diverse lingue: ebraico, greco antico e latino.

    Con la testa reclinata sul petto e la folta chioma ad incorniciargli il bel viso dai lineamenti scolpiti, Cristo è ancora saldamente inchiodato alla croce. Signorelli, infatti, con la sua consueta bravura nella resa muscolare delle figure, ci mostra un corpo dalle membra già irrigidite, che piano piano sta acquistando il colorito tipico della morte. Su di esso spicca soltanto la nota cromatica rossa del sangue che esce dalle varie ferite (in particolar modo quella del costato) e del perizoma, impreziosito da striature anche di altri colori.

    La posizione della croce impone una struttura simmetrica allo spazio compositivo che, pertanto, risulta longitudinalmente diviso in due parti: a destra, in secondo piano si collocano due figure femminili e una maschile, mentre ancora più in lontananza due episodi successivi alla crocifissione, vale a dire la deposizione e il trasporto al sepolcro. A sinistra, invece, il primo piano è occupato dalla figura semi-inginocchiata della Maddalena, rappresentata con i fluenti capelli biondi che cadono morbidi sul tessuto setoso dell’abito azzurro fino quasi a sfiorare il ginocchio nascosto da uno sgargiante mantello rosso.  La donna tiene gli occhi fissi sul corpo di Cristo, tendendo un braccio verso lo spettatore e l’altro quasi ad abbracciare la croce, in un gesto di disperazione contenuta. Dietro di lei siede poco più indietro una figura maschile assorta in una triste meditazione, da identificare come San Pietro.

    In questa tela il pittore indugia particolarmente anche sulla rappresentazione del paesaggio collinare, soffermandosi sulle crepe delle rocce, sugli alberi che si riflettono nello specchio d’acqua, sul manto erboso. Il tutto è sovrastato da un cielo chiarissimo, solcato da qualche nuvola bianca, che conferisce alla scena un’atmosfera pomeridiana, pervasa da una luce azzurrina soffusa.

    Originariamente nel convento fiorentino di S. Vincenzo d'Annalena (da qui il nome anche di Pala dell’Annalena), quest'opera fu commissionato al Signorelli intorno agli anni ’90 del 1400 forse da Annalena Malatesta. Figlia del signore di Rimini Galeotto Malatesta, fu la fondatrice di questo convento dove era particolarmente forte la devozione per Maria Maddalena (e questo spiegherebbe l’inusuale posizione preminente della santa nel dipinto).

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    Luca Signorelli

    Condussero dunque Gesù al luogo del Gòlgota, che significa luogo del cranio (Marco 15,22).

     

    Ai piedi della croce compare, come di consueto, un teschio, in allusione al nome aramaico del monte Gòlgota ( gūlgūtā «cranio, teschio» ),  luogo della Crocifissione, dove si credeva fosse sepolto Adamo. Nella simbologia cristiana la presenza del teschio del progenitore è direttamente collocata al sacrificio di Cristo, poiché egli, morendo sulla croce, ha redento tutta l'umanità macchiata dal peccato originale. La lucertola appogiata al cranio è invece un simbolo che evoca la Resurrezione, in quanto la sua coda, anche se spezzata, può ricrescere.

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    Luca Signorelli

    E Pietro si ricordò della parola di Gesù, che aveva detto: «Prima che il gallo canti, tu mi rinnegherai tre volte». E, uscito fuori, pianse amaramente (Matteo 26, 75).

     

    Sulle rive del ruscello, seduto su un masso, un uomo in tunica blu e manto oro, con la barba e i capelli ricci bianchi, rivolge lo sguardo verso il basso, in un tipico atteggiamento di triste riflessione. E’ da interpretare con tutta probabilità come l’attimo finale del rinnegamento di Pietro il quale, dopo aver affermato per tre volte di non conoscere Gesù all’atto della sua cattura, si ricorda della predizione fattagli dal Maestro e piange lacrime amare.

  • 21/42
    Luca Signorelli

    Rispose loro Gesù: "Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere" (Giovanni 2, 19).

     

    Sulla sommità dello sperone roccioso Signorelli colloca una veduta cittadina, nella quale si può riconoscere un richiamo a Castel Sant’Angelo nell’edificio collocato proprio sullo strapiombo. Sulla sinistra, invece, si trova un tempio diroccato, spezzatosi a metà nel momento in cui Gesù spirò. Nella citazione evangelica si nasconde il parallelo tra il tempio e il corpo di Cristo, risorto dopo tre giorni, ma anche l’allusione alla ricostruzione del tempio di Gerusalemme sotto il segno della nuova religione del Cristianesimo.

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    Luca Signorelli

    In alto a destra del dipinto, Signorelli mette in scena i momenti successivi alla morte di Gesù: la Deposizione dalla Croce e il Trasporto al sepolcro. Nella prima scena si vedono molti personaggi occupati nel deporre il corpo senza vita di Gesù sostenuto a fatica da un personaggio che potrebbe essere Giuseppe di Arimatea o Nicodemo, entrambi autorizzati da Pilato alla sepoltura del corpo di Cristo (MT 27, 57-60). Ai piedi della croce le Pie donne assistono la Vergine Maria, svenuta dal dolore. Più in basso, sul crinale del monte alcune delle stesse figure sono raffigurate mentre trasportano Cristo verso il sepolcro in un mesto corteo chiuso dalla Madonna seminascosta nel mantello.

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    Agnolo Gaddi

    Crocifissione

    1390 ca.

    Tempera su tavola, 57,5 x 77 cm

    Uffizi, Gallerie delle Statue e delle Pitture, Sala 5-6

     

    Verso le tre, Gesù gridò a gran voce: «Elì, Elì, lemà sabactàni?», che significa: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Udendo questo, alcuni dei presenti dicevano: «Costui chiama Elia». E subito uno di loro corse a prendere una spugna e, imbevutala di aceto, la fissò su una canna e così gli dava da bere. Gli altri dicevano: «Lascia, vediamo se viene Elia a salvarlo!». E Gesù, emesso un alto grido, spirò (Matteo 27, 46-50).

     

    Il dipinto rappresenta il tragico momento della morte di Cristo, raffigurato dall’artista al centro della scena, macilento, con il capo reclinato sulla spalla e ormai rassegnato al suo destino. Il dramma del dolore e della morte risalta in modo ancor più tragico nell’isolamento della figura nuda, al centro di un cielo completamente dorato, privo di elementi atmosferici o architettonici.

    L’aria rarefatta e carica di sacralità, contrasta con il corteo variopinto di figure, animate da espressioni e gesti fortemente caratterizzati, che erompe nella parte inferiore del dipinto.

    Emergono qui alcuni tratti distintivi dello stile di Agnolo, che pur discendendo dalla scuola giottesca, attraverso la mediazione del padre Taddeo, sul finire del Trecento rinnova l’arte del maestro alla luce delle novità tardogotiche. La composizione appare priva di una regia unitaria e l’occhio dell’osservatore tende a smarrirsi e soffermarsi su episodi secondari e su figure dai tratti carichi di enfasi.

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    Agnolo Gaddi

    Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!» (Luca 23, 39).

    Agnolo utilizza per il cattivo ladrone un’iconografia tipicamente medievale, con l’anima del moribondo raffigurata come un neonato, rapita da un diavolo dai tratti bizzarri e grotteschi.

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    Agnolo Gaddi

    Il centurione e quelli che con lui facevano la guardia a Gesù, sentito il terremoto e visto quel che succedeva, furono presi da grande timore e dicevano: «Davvero costui era Figlio di Dio!» (Matteo 27, 54).

    Rispetto alla fisionomia fortemente caratterizzata del ladrone intento a dileggiare Cristo, Agnolo adotta per la figura del centurione romano, che invece ne riconosce la natura divina, una maniera ricercata ed elegante. Le linee raffinate del volto e le cromie del mantello appena mosso dal vento, manifestano il cambio di stile dell’autore, che qui declina in senso lirico le novità tardogotiche.

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    Agnolo Gaddi

    I soldati poi, quando ebbero crocifisso Gesù, presero le sue vesti e ne fecero quattro parti, una per ciascun soldato, e la tunica. Ora quella tunica era senza cuciture, tessuta tutta d'un pezzo da cima a fondo. Perciò dissero tra loro: Non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocca. Così si adempiva la Scrittura: Si son divise tra loro le mie vesti e sulla mia tunica han gettato la sorte. I soldati fecero proprio così (Giovanni 18, 23-24).

    I soldati sono raffigurati nell’atto di sorteggiare chi di loro avrebbe ottenuto la tunica. L’artista si sofferma sui dettagli preziosi delle vesti, definite da una cromia brillante e da ricche finiture dorate.

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    Agnolo Gaddi

    Stabat Mater dolorósa
    iuxta crucem lacrimósa,
    dum pendébat Fílius.
    Cuius ánimam geméntem,
    contristátam et doléntem
    pertransívit gládius.

    ___

     

    La Madre addolorata stava
    in lacrime presso la Croce
    mentre pendeva il Figlio.
    E il suo animo gemente,
    contristato e dolente
    era trafitto da una spada.

    (Stabat Mater, Beato Jacopone da Todi - attribuito)

     

    Sotto la croce si riconosce a sinistra la Madonna esanime, abbandonata nelle braccia delle pie donne, mentre ai piedi del legno la Maddalena e San Giovanni Evangelista assistono sofferenti alla morte di Gesù.

    Anche in questa scena prevale la vena lirica del pittore, che con sensibilità espressiva e sapienza descrittiva riesce a narrare il dolore ed il senso di remissione delle figure.

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    Giottino

    Pietà di San Remigio

    Tempera su tavola, 195 x 134 cm

    Uffizi, Gallerie delle Statue e delle Pitture, Sala 4

     

    Essi presero allora il corpo di Gesù, e lo avvolsero in bende insieme con oli aromatici, com'è usanza seppellire per i Giudei (Giovanni 18, 40).

     

    Cristo giace a terra compianto dalla madre e dalle persone che lo hanno accompagnato fino alla morte sulla croce. Alla sua destra, la Madonna addolorata sorregge il suo corpo: è ancora rossa in viso per il pianto. Alla sinistra di Cristo, una fanciullesca Maddalena imbronciata rivolge lo sguardo rassegnato verso il basso. Alle loro spalle, quasi estranei alla scena, si ergono solenni Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea, quest’ultimo con i tre chiodi, simbolo della Croce e il vaso degli unguenti con cui ha profumato il corpo di Gesù. Inginocchiate intorno al Cristo, le pie donne gli baciano le mani; dietro di loro assiste alla scena San Giovanni Evangelista, ritratto in atteggiamento raccolto con le mani giunte al petto, mentre a sinistra nel dipinto un’altra donna è colta nell'atto di pregare volgendo lo sguardo verso l’alto.

    Giotto di Maestro Stefano fu uno dei più abili seguaci di Giotto, tanto da meritare l'appellativo di Giottino, alimentando l’opinione comune che fosse figlio del grande maestro fiorentino. La capacità di rinnovare il prototipo della tavola trecentesca, unificando la composizione e disponendo le figure in modo da conferire alla scena un senso potente di teatralità drammatica, manifesta infatti chiaramente la sua ascendenza giottesca, filtrata verosimilmente attraverso l’apprendistato presso Maso di Banco.

    L’assenza totale di elementi architettonici, con la croce spoglia e insanguinata che domina la parte alta della tavola, oltre a studiati espedienti compositivi come la donna vista di spalle in primo piano, accentuano l’intensità tragica e costringono l’osservatore a concentrare lo sguardo verso il dramma e a partecipare ad esso.

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    Giottino

    Il fondo oro isola completamente i personaggi dalla dimensione terrena, e ne enfatizza la presenza scenica all'evento, veicolando l'attenzione di chi guarda sulla nobile compostezza dei loro gesti, il naturalismo e la forza espressiva dei volti.

    Nel dipinto la resa di dettagli realistici, come i particolari degli abiti, e una certa tendenza a sottolineare nei personaggi le reazioni emotive, testimoniano l’influsso esercitato sul pittore da Giovanni da Milano e, più in generale, dall’arte d’oltralpe.

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    Giottino

    La tavola fu commissionata per la Chiesa di San Remigio a Firenze: sulla sinistra, infatti, vediamo ritratte due committenti, una monaca benedettina e una fanciulla elegantemente vestita con le mani incrociate sul petto. In secondo piano San Benedetto ed il vescovo Remigio, con un gesto di benedizione e protezione paterna, posano le mani sulle loro teste.

    Acquistata dallo Stato nel 1842, dal 1851 è esposta agli Uffizi.

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    Ludovico Cardi detto Cigoli

    Deposizione di Cristo dalla croce

    1600-1608

    Olio su tavola, 321 x 206 cm

    Galleria Palatina di Palazzo Pitti, Sala di Apollo

     

    Dopo questi fatti, Giuseppe d'Arimatèa, che era discepolo di Gesù, ma di nascosto per timore dei Giudei, chiese a Pilato di prendere il corpo di Gesù. Pilato lo concesse. Allora egli andò e prese il corpo di Gesù. Vi andò anche Nicodèmo, quello che in precedenza era andato da lui di notte, e portò una mistura di mirra e di aloe di circa cento libbre (Giovanni 18, 38-39).

     

    Commissionata al pittore nel 1600 dalla Compagnia della Croce di Empoli, annessa alla chiesa di Santo Stefano degli Agostiniani, e consegnata il 27 gennaio 1608, la tavola è unanimemente riconosciuta uno dei vertici dell’artista e della pittura toscana del Seicento in generale. Con la sua gran bellezza formale, tale opera conquistò il Gran Principe Ferdinando de’Medici che, nel 1690, seguendo una prassi a lui abituale, l’acquisì per la propria collezione, dando in cambio ai monaci una cospicua donazione in denaro e una copia della tavola, eseguita da Anton Domenico Gabbiani.

    Il Cigoli dedicò molto tempo all’elaborazione dell’opera (com’è attestato da un nucleo di disegni preparatori di notevole qualità), la quale presenta infatti una composizione accurata, ricca di figure sapientemente giustapposte tra loro, grazie anche al nitido gioco di linee, luci ed ombre.

    La scena è come divisa quasi a metà da una diagonale che, partendo in alto a sinistra, scende seguendo il profilo del braccio del giovane il quale, arrampicato sulla scala, aiuta Giuseppe d'Arimatea a deporre Gesù nel lenzuolo bianco tenuto da San Giovanni Evangelista. Tale linea, individuata anche dal fianco e dalle gambe pesantemente abbandonate del corpo di Cristo, nonché dal braccio e dalla spalla di San Giovanni, separa questo gruppo di figure da quello delle donne (la Vergine Maria, Maria di Cleofa e Maria Maddalena) che, sulla sinistra, ai piedi della croce, esprimono in modo contenuto ed introspettivo il proprio dolore. Dietro di loro emergono altre tre figure maschili, tra le quali andrà collocato sicuramente Nicodemo, il fariseo convertito di nascosto agli insegnamenti di Gesù, che portò un’anfora di mirra e aloe, con cui ungere il corpo del Salvatore prima di deporlo nel sepolcro.

    Per conferire ancora più incisività espressiva e teatrale a questo momento drammatico, il Cigoli inserisce delle brillanti “macchie di colore” che animano la superficie del quadro, rompendo qua e là i vari passaggi chiaroscurali. E' il caso, ad esempio, dell'azzurro lucente della manica del farsetto di Giuseppe d'Arimatea, del rosso brillante del mantello del San Giovanni Evangelista, del celeste tenue e del giallo arancio delle vesti della Maddalena.

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    Ludovico Cardi detto Cigoli

    Sulla scena della Deposizione incombe un cielo oscuro, il quale evoca direttamente quel passo del Vangelo che recita: “Era verso mezzogiorno, quando il sole si eclissò e si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio.” (Luca 23, 44).  Tra le pesanti nuvole nere, ai lati della croce, spuntano però due cerchi, quello di sinistra di colore arancione, quello di destra di colore azzurro. All'interno di ciascuno di essi vediamo una figura seminuda a mezzobusto che si dispera coprendosi il volto con le mani.

    Si tratta di due immagine simboliche che rappresentano il Sole e la Luna, i due astri che accompagnano da sempre il cammino degli uomini, i quali piangono, rendendo omaggio al sacrificio di Gesù. Già presenti nelle Crocifissioni fin dalla tradizione figurativa medievale, essi evocano lo scorrere del tempo nelle sue due accezioni principali: il giorno e la notte, cui corrispondono la luce e il buio. Attraverso di essi, dunque, si allude alla natura divina di Cristo, il quale siede al di sopra del tempo e della storia, ma anche alla sua sofferenza come uomo che ha permesso la salvezza e la redenzione di tutta l'umanità.

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    Ludovico Cardi detto Cigoli

    L'angolo in basso a sinistra del dipinto è occupato interamente dalla figura della Vergine Maria, seduta a terra, lo sguardo rivolto verso il basso, le braccia sollevate in un pacato gesto di disperazione. Particolare importanza cromatica e simbolica è data al mantello blu oltremare che le ricopre interamente la testa per poi ricadere al suolo con un ampio lembo di stoffa, su cui sono mostrati in maniera evidente due dei simboli principali della Passione di Cristo: la corona di spine e i chiodi.

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    Antonio Ciseri

    Trasporto di Cristo al sepolcro

    1891

    Olio su tela, 80 x 136 cm

    Galleria d'Arte Moderna di Palazzo Pitti, Sala 14

     

    Dopo queste cose, Giuseppe d’Arimatea, che era discepolo di Gesù, ma in segreto per timore dei Giudei, chiese a Pilato di poter prendere il corpo di Gesù, e Pilato glielo permise. Egli dunque venne e prese il corpo di Gesù. Nicodemo, che in precedenza era andato da Gesù di notte, venne anch’egli, portando una mistura di mirra e d’aloe di circa cento libbre. Essi dunque presero il corpo di Gesù e lo avvolsero in fasce con gli aromi, secondo il modo di seppellire in uso presso i Giudei. Nel luogo dov’egli era stato crocifisso c’era un giardino, e in quel giardino un sepolcro nuovo, dove nessuno era ancora stato deposto. Là dunque deposero Gesù, a motivo della Preparazione dei Giudei, perché il sepolcro era vicino (Giovanni 19,38-40).

     

    Sotto la potenza di una luce quasi metafisica, l’incedere del corteo che accompagna Cristo al sepolcro diviene monumentale. In primo piano con un gesto plateale, rivolto al Cielo, la Vergine sembra restituire al Padre il Figlio morto; le donne dietro di lei, incarnano il dolore più umano, con la figura della Maddalena che coniuga disperazione e sensualità in un equilibrio perfetto; Giovanni, dal volto in ombra, sostiene il peso del corpo di Gesù e si volge verso Maria; Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo sorreggono il sudario candido e conducono la processione verso il sepolcro.

    Nell’intento di restituire la verità intensamente umana dell’evento, ed attualizzarne la dimensione storica, Ciseri, secondo il dettato della moderna pittura di storia, indugia nella descrizione degli affetti, così come nel bagliore altamente scenografico della luce. La resa meticolosa di gesti, espressioni, panni, epidermidi e fisiognomie generò grandi elogi, ma incontrò anche critiche per l’eccesso di verità proposto in un tema sacro che era trattato come un paradigma delle sventure umane. Questi spunti furono meditati da Ciseri insieme a referenti pittorici più che illustri per un tema come il Trasporto di Cristo, quali la Pala Baglioni della Galleria Borghese (1507) di Raffaello, e la Deposizione dei Musei Vaticani di Caravaggio per Santa Maria della Vallicella (1600-1604 c.).

    Il dipinto è una delle repliche che Ciseri a partire dal 1872 trasse dal prototipo eseguito per il Santuario della Madonna del Sasso di Locarno (1864-1869).

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    Rogier van der Weyden

    Compianto e sepoltura di Cristo nel sepolcro

    1450 ca. o 1460-63

    Olio su tavola, 110 x 96 cm

    Uffizi, Galleria delle Statue e delle Pitture, Sala 15

     

    In occasione del Giubileo del 1450 il pittore fiammingo Rogier van der Weyden intraprese un viaggio in Italia che lo portò a toccare le principali corti del Rinascimento: in primis Roma, ma anche Napoli, Mantova, Milano, Ferrara e Firenze. Nella città toscana egli ebbe significativi contatti con Beato Angelico, che si riflettono esplicitamente in questo quadro. Esso, infatti, riprende (e reinterpreta attraverso il filtro della particolarissima visione artistica nordica) la tavoletta della Pietà dipinta dall'Angelico per la predella della Pala di San Marco (1438-1443) ed oggi all'Alte Pinakothek di Monaco di Baviera. Da quest'opera proviene l'idea della centralità del sepolcro scavato nella roccia, di fronte al quale il corpo di Cristo, raffigurato in tutta la sua espressiva magrezza, viene tristemente presentato ai fedeli. Lo sorreggono da dietro Giuseppe d'Arimatea (a sinistra) e Nicodemo (a destra), tenendo anche i lembi del sudario, mentre ai lati la Vergine Maria e San Giovanni Evangelista lo sostengono per le braccia filiformi, facendogli assumere una posizione leggermente in diagonale. Il corpo di Gesù poggia appena i piedi scheletrici sulla pietra del sepolcro gettata a terra e sembra quasi scivolare verso la Maddalena inginocchiata di fronte a lui con le braccia spalancate in un gesto di disperazione. Tutta la composizione è costruita con un punto di vista rialzato, allo scopo di coinvolgere pienamente lo spettatore che si sente quasi “risucchiato” all'interno della scena. Ad accentuare questo senso di attualizzazione dell'evento sacro si pone l'attenzione al dettaglio tipica della pittura fiamminga, che si sofferma a rendere in maniera il più realistica possibile i volti, le capigliature, gli abiti (preziosissimi  quelli in pelliccia e in broccato di Giuseppe d'Arimatea e Nicodemo), esaltati dal sapiente uso degli effetti cromatici e luministici.

    Secondo alcuni eseguito durante il suo soggiorno di metà XVI secolo, mentre per altri dipinto successivamente nelle Fiandre (1460-63), il Compianto degli Uffizi decorava la cappella della villa Medici di Careggi, dove si trovava almeno dal 1482 ed è quindi molto probabile che i Medici siano stati i diretti committenti dell'opera.

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    Rogier van der Weyden

    L'estremo realismo della pittura fiamminga, volto a suscitare nello spettatore commozione e piena partecipazione alla sofferenza del sacrificio di Cristo, raggiunge l'apice nei volti anziani di Giuseppe d'Arimatea e Nicodemo, solcati dalle rughe e dalle lacrime.

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    Rogier van der Weyden

    Forte volontà mimetica connota anche il paesaggio, caratterizzato da tanti dettagli minuziosamente raffigurati. L'occhio curioso dello spettatore indugia su ciascuno di essi: dal cancelletto in legno che chiude il sentiero percorso dalle pie donne (che troveranno il sepolcro di Cristo vuoto dopo la Resurrezione) alla città turrita di chiaro sapore nordico sullo sfondo; dalla montagna del Golgota su cui si ergono le tre croci, al cielo di varie tonalità di azzurro.

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    Rogier van der Weyden

    In basso a destra vediamo una prezioso contenitore in oro lavorato artigianalmente: è il vasetto degli olii e delle essenze profumate con cui Maria Maddalena unse i piedi di Gesù Cristo. Nel prato (ma anche sotto le pietre e nelle spaccature della roccia del sepolcro) cresce una gran varietà di piante e fiori, raffigurati con botanica precisione.

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    Tiziano Vecellio

    Cristo Risorto

    1511-1512

    Olio su tavola, 133,2 x 83,2 cm

    Uffizi, Galleria delle Statue e delle Pitture, Sala 83

     

    “O notte beata” canta l'Exultet di Pasqua, “tu solo hai meritato di conoscere il tempo e l'ora in cui Cristo è risorto dagli inferi”.

    Il Cristo risorto di Tiziano, dipinto a olio intorno al 1511 quando l’artista aveva circa vent’anni, è un’opera in cui il pittore ha concentrato la sua attenzione sulla figura del Risorto riducendo al minimo gli elementi narrativi. Secondo i Vangeli sinottici  Maria di Magdala e le Pie donne si recano al sepolcro con gli aromi per la sepoltura; qui due uomini in vesti sfolgoranti appaiono loro chiedendo: “Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risuscitato” (Luca 24,5-6); il sepolcro vuoto costituisce per i credenti un “segno” essenziale, elemento che Tiziano sceglie di raffigurare facendo poggiare i piedi del Cristo su un piano “neutro” in cui si intuisce la presenza della tomba. Il dipinto poi si apre sulla figura del Risorto, attraverso il quale Tiziano trasmette la sua personale visione delle immagini sacre, ovvero un dialogo armonioso tra cielo e terra, in uno spazio che è insieme paesaggio e cielo luminoso.

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    Tiziano Vecellio

    Tiziano, nasce a Pieve di Cadore, ma è artista in tutto e per tutto veneziano. Egli osserva e valuta gli esiti di altri maestri presenti a Venezia, città nella quale si ha un’eccezionale congiuntura di artisti in particolare nel primo ventennio del Cinquecento, come Giorgione che incontra nel 1508 e con il quale collabora al Fondaco dei Tedeschi, Albrecht Dürer che è in città nel 1494 e di nuovo nel 1505, Giovanni Bellini, Sebastiano del Piombo, Lorenzo Lotto e altri. Artisti di cui si avverte la conoscenza nella descrizione dettagliata della natura, nel panneggio ampio che “crea spazio”, nei colori luminosi della tavolozza. Il maestro però, seguirà sempre la sua strada nella sensibilità tutta veneta di costruire attraverso il colore, un colore in cui la luce entra nella composizione e brilla, rendendo figure, paesaggio e tutto ciò che viene descritto, luminoso quasi smaltato.

    Ludovico Dolce scriverà: “fu non solo divino come il mondo lo reputava, ma come un dio e senza pari” (Dialogo della pittura, Venezia, 1557).

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    Tiziano Vecellio

    Il Cristo risorto è entrato in collezione nel 2001 per acquisto da parte dello Stato; era infatti di proprietà di un membro della famiglia Contini Bonacossi. E' stato oggetto di restauro nel 2002, concentratosi in particolare per la parte del supporto ligneo ed è attualmente esposto nella sala dedicata alle opere di Tiziano.

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    Pieter Paul Rubens

    Cristo Risorto

    1616 ca.

    Olio su tela, 192 x 157,3 cm

    Galleria Palatina di Palazzo Pitti, Sala delle Belle Arti

     

    Dopo il terribile dramma della Crocifissione e morte di Gesù, il ciclo della Passione giunge al suo epilogo nella domenica e nel lunedì di Pasqua, il momento in cui gli Apostoli e le pie donne accertano la sua avvenuta resurrezione.

    La tela di Rubens, esposta in Galleria Palatina, è una delle più originali e spettacolari interpretazioni di questo tema e non segue fedelmente il racconto evangelico, ma punta l’attenzione a un singolo, fulminante momento: quello in cui Gesù, imbracciando il vessillo della croce, si solleva in piedi sul sepolcro, rivelandosi in tutta la sua formidabile potenza fisica.

    L’angelo dietro di lui, poco più che adolescente, solleva con cura il sudario, così leggero e soffice da modellarsi sulla sua mano, e ci disvela l’apparizione miracolosa. Sulla destra, in altro, due angiolini accorrono con la corona di spine, il simbolo del suo sacrificio compiuto per l’umanità.

    Rubens ci consegna una immagine trionfante, che rimane impressa nella nostra immaginazione non solo per l’imponenza di un corpo perfetto, modellato sui nudi sistini di Michelangelo e sulla statuaria antica che il fiammingo aveva studiato nel corso del suo soggiorno in Italia, ma anche per la straordinaria capacità di lavorare con i colori in modo da arricchire e dare corpo ad ogni oggetto rappresentato. E così possiamo avvertire non solo la forza espressiva dello sguardo di Gesù e dell’angelo che lo accompagna, ma anche la ricchezza dei passaggi cromatici usati per definire le capigliature, il candore roseo delle pelli dei due puttini, il contrasto tra il bianco argenteo del sudario e la veste rosso fuoco dell’angelo, i bagliori di gialli e di azzurri che incorniciano la scena.

    Sul sepolcro si possono intravedere alcuni mazzi di spighe di grano, su cui fino a poco prima giaceva il deposto: sono un simbolo antichissimo che nei miti greci simboleggiava la rinascita, il risveglio della natura dopo il lungo letargo dell’inverno. Il grano è il dono di Dio, simbolo delle stagioni che si alternano e del lavoro dell’uomo. Qui allude, per estensione, alla celebrazione eucaristica, e all'ostia consacrata che viene distribuita ai fedeli.

    La grande tela di Rubens, eseguita pochi anni dopo il suo soggiorno italiano e pienamente testimone di quanto il giovane pittore avesse appreso nel corso dei suoi anni spesi ad ammirare la pittura veneziana, i miti della grande Roma del Cinquecento e la statuaria antica, fu uno dei più rilevanti successi collezionistici del Gran Principe Ferdinando de’ Medici, nella cui raccolta figura fin dalla fine del XVII secolo.

Il racconto della Pasqua

La Passione, la Morte e la Resurrezione di Gesù attraverso le opere delle Gallerie degli Uffizi

CREDITS

Coordinamento scientifico: Anna Bisceglia, Katiuscia Quinci

Testi: Anna Bisceglia, Beatrice Cristini, Clara Fiammetti, Matteo Guglielmi, Katiuscia Quinci, Chiara Ulivi

Traduzioni: Piper Mathews

Grafica: Andrea Biotti

Crediti fotografici Francesco del Vecchio e Roberto Palermo  

Nota: ogni immagine della mostra virtuale può essere ingrandita per una visione più dettagliata.

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